Una ragazza e una pistola. E un androide

Schegge di futuro tra cellulosa e celluloide.

Mensa Italia
9 min readApr 26, 2020

«Signori del Lions Club di Anaheim, — disse l’uomo al microfono — ci è data questo pomeriggio una magnifica opportunità, poiché, vedete, la nostra contea, la Contea di Orange, ci ha concesso di ascoltare la viva voce (e di porre ogni sorta di domanda) di un agente segreto della sezione narcotici del Dipartimento dello sceriffo della Contea di Orange.

E ora noterete — disse l’anfitrione del Lions Club — che questa persona, che sta seduta proprio alla mia destra, è visibile a malapena, perché porta indosso quello che si chiama un alterabito, cioè quell’abito che indossa (e anzi deve indossare) durante certi momenti della sua vita, e per la precisione durante la maggior parte delle sue azioni quotidiane di pubblico ufficiale. Spiegherà lui più tardi per quale motivo.»

L’uomo nell’alterabito è Bob Arctor, interpretato nel film del 2006 di Linklater da Keanu Reeves. Il luogo è il Lions Club di Anaheim, Orange County, Stati Uniti. Il futuro è quello di Philip K. Dick ne ‘Un oscuro scrutare’, il duemilaqualcosa, che nel 1977 sembra lontanissimo e affascinante: le automobili sono elettriche e volano, Marte è vicino e gli androidi sono comuni come gli smartphone (ma internet non esiste, unica pecca nella genialità visionaria di Dick).

Ma è il futuro oscuro e cupo che i contemporanei dello scrittore non si aspettano, quello dove l’imperialismo nixoniano e il trascorso terrore del maccartismo si materializzano con forza negli incubi della mente fervida dello scrittore, mentre in tutti gli Stati Uniti il futuro è propagandato come bello, americano e tangibile.

Philip K. Dick invece è un creatore di futuri possibili, quelli che negli anni ’60/’70 erano appunto plausibili ma non auspicabili, in un genere che in quel periodo subiva una pesante flessione a favore della letteratura realistica ed era di conseguenza sempre più difficile da vendere agli editori. Eppure Dick, trascurando gli episodi comunque degni di nota della sua sbandata mainstream, crede nel futuro e scrive un numero impressionante di libri e racconti di fantascienza. E quando viene spinto da un editore a produrre qualcosa di più commerciale riesce comunque a dare vita a romanzi godibili e scorrevoli (tranne ‘Vulcano 3’ che è oltremodo sottotono e lascia il lettore scontento, nonostante le premesse stuzzicanti).

Dick ci lascia nel marzo del 1982 e, come consuetudine, le sue quotazioni esplodono. Soprattutto perché esce in quell’anno un film liberamente ispirato al suo romanzo ‘Cacciatore di androidi’, conosciuto anche con il titolo (molto più geniale a mio parere) ‘Ma gli androidi sognano pecore elettriche?’. A dirigerlo, grazie ad alcune fortunate coincidenze, è un promettente regista già reduce da due successi, uno di critica e l’altro di botteghino, Ridley Scott.

Scott era impantanato nel progetto di un lungometraggio tratto dal ciclo di Dune di Frank Herbert, altro ineguagliabile capolavoro di fantascienza. Nei libri di Dune, ambientati addirittura tra diecimila e più anni, si ritrovano per la prima volta tutti gli elementi che hanno reso memorabile il cinema di fantascienza: spade laser; viaggi interstellari con curvatura; un ordine monastico addestrato, letale e con poteri quasi sovrumani e addirittura un pianeta dal nome familiare di Giedi Primo, solo per citarne alcuni.

La bellezza di Dune e dell’universo herbertiano (perché di questo si parla, di pura bellezza) è la completa assenza di magia. La mente e le sue capacità hanno un ruolo di primissimo piano e tutto è logico, scientifico e probabilmente tecnologicamente realizzabile (caratteristiche che invece non troviamo nell’acclamato Star Wars, anche se George Lucas stesso riconosce Dune come sua prima ispirazione).

Prima di Scott già Alejandro Jodorowsky (per la cui poliedricità non esiste una definizione — scrittore, fumettista, saggista, drammaturgo, regista teatrale, cineasta, compositore e poeta) aveva provato a dare vita all’universo herbertiano con un cast difficilmente replicabile: Salvador Dalí, Orson Welles, Mick Jagger, Udo Kier, David Carradine, Geraldine Chaplin e Gloria Swanson per citarne alcuni; e la colonna sonora dei Pink Floyd, dei Gong, dei Tangerine Dream e i Sun Ra (con ognuno dei gruppi impegnati a ‘musicare’ un pianeta della saga — lo so, sarebbe stato troppo bello per essere vero. C’è un bel documentario dal titolo ‘Jodorowsky’s Dune’ che racconta questa storia).

Purtroppo i tempi lunghissimi di realizzazione e i costi definiti ‘impossibili’ fecero scappare via i produttori interessati e il testimone passò al famigerato Dino De Laurentiis che scelse, appunto, il nostro Ridley, il quale, stanco per la preparazione di un film ritenuto da molti ‘impossibile da filmare’, dopo soli sette mesi se ne svincolò dalla produzione. Le ultime speranze furono affidate a David Lynch che, digiuno del libro e senza neanche conoscere la storia, scrisse una sceneggiatura vergognosa e, spero involontariamente, distrusse con singolare determinazione tutto ciò che di bello Herbert aveva scritto, rendendo il film una fumosa accozzaglia disorganica (nonostante molti riferiscano di pesanti imposizioni nelle scelte artistiche da parte dei De Laurentiis).

È quindi per puro caso che Ridley Scott arriva a dirigere Blade Runner. Anche qui però la trasposizione cinematografica stravolge in larga misura il testo originale dell’autore, Philip K. Dick. Il protagonista, Rick Deckard, sposato e dall’esistenza grigia, nel film diventa un detective “alla Philip Marlowe” (con tutti i cliché del caso), appartenente all’unità Blade Runner, addetta al ‘pensionamento’ degli androidi. E così già dall’inizio del film ci si ritrova a fare il tifo per i ‘replicanti’, pieni di dubbi esistenziali e innamorati della vita (salvo poi scoprire che lo stesso Deckard è uno di loro e che nel libro sono androidi quasi privi di sentimenti).

Il cast è stellare: Harrison Ford (reduce da Star Wars e Indiana Jones) fa un ottimo lavoro pur essendo spesso in contrasto con le scelte di Scott e della produzione; Sean Young bravissima e bellissima (e qui va un plauso al reparto costumi); Daryl Hannah perfetta nel ruolo di androide sexy e un po’ androgino; Rutger Hauer, scritturato addirittura senza provino, decide di aggiungere al monologo finale, improvvisando, la frase che gli è valsa l’ingresso nella storia del cinema “E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire”.

Lo stesso si può dire per la colonna sonora di Vangelis: onirica, imponente, spiazzante e sempre funzionale. E anche per questo rimane mnemonicamente presente non solo l’incalzante tema principale o le parti sostenute dall’ensemble giapponese Nipponia, ma anche il suono del sax tenore del ‘Love Theme’. Colonna sonora perfetta quindi ma che curiosamente, nonostante le aspettative del pubblico di Vangelis (e la promessa nei titoli di coda), uscirà più di dieci anni dopo.

Ma l’apporto più grande alla cinematografia (e il motivo per cui lo stesso Dick rimase affascinato e da primo detrattore divenne convinto sostenitore del film) fu la visione del futuro, con un set che regala la Los Angeles più affascinante e scenografica mai immaginata, al punto che tutte le produzioni seguenti vi prenderanno spunto

(o copieranno integralmente — date un’occhiata ad Altered Carbon su Netflix).

All’opposto di quella descritta nel libro, L.A. è caotica e affollata, con grattacieli immensi e palazzi estesi per chilometri, con le fiamme prodotte dalle torri delle fabbriche onnipresenti sulla skyline e le pubblicità olografiche invasive e interattive. Per rendere il concept, la produzione allestisce un intero quartiere, chiamato opportunamente ‘Ridleyville’, negli studi californiani della Warner. Il risultato è eccezionale, considerando anche i mezzi tecnici del 1981 e che gli effetti visivi in computer grafica sono ancora agli albori.

Qui si materializza l’ispirazione alle opere di Edward Hopper e dell’architetto futurista Antonio Sant’Elia, con un chiaro tributo del ‘visual futurist’, Syd Mead, alla rivista di culto ‘Métal Hurlant’ di Jean ‘Moebius’ Giraud (che iniziò a curare il progetto per poi doverlo abbandonare e pentirsene in seguito).

Un complesso sistema di irrigatori e fumogeni garantisce l’onnipresenza della pioggia nell’inquinata L.A. del futuro, oltre a nascondere il cielo (il film è girato praticamente sempre al buio o in penombra, con il reparto luci impegnato a dare questa impressione).

E così nella Los Angeles del 2019 non c’è un monumento, una costruzione, un’abitazione che trasmetta il senso del bello; al contrario, è tutto o funzionale o austero, spesso anche volutamente consumato e sciatto, in uno sforzo incredibile del reparto artistico (che annovera professionisti del calibro di Linda DeScenna, Leslie McCarthy-Frankenheimer, Thomas L. Roysden e Peg Cummings — i creatori e decoratori dei set di Ritorno al futuro, Star-Trek, Rain Man, Il colore viola, The Blues Brothers e molti altri) nel rendere una visione fantastica il più possibile realistica (bellissima la carrellata verticale dell’arrivo di Deckard alla stazione di polizia nella quale si vede il tetto dell’ufficio dell’ispettore Bryant correttamente impolverato e con qualche scarto di costruzione).

Perché la forza del film è proprio questa: una resa plausibile di un mondo ancora distante, ottenuta inserendo elementi comuni in contesti possibili.

Non solo una storia ambientata in un futuro intenso (ma in fondo modellato sul passato), bensì una visione che affascina ma non distrae, lasciando che lo spettatore si concentri sulla storia e si appassioni alla sfida tra l’uomo, la tecnologia e l’ignoto. Anche i ‘lens flare’, ovvero i riflessi delle luci nelle ottiche della macchina da presa, tanto cari a J.J. Abrams — e per i quali ha recentemente ammesso la dipendenza — fanno una delle loro prime comparse in questo film come elemento dosato, caratterizzante ma non distraente.

Si tratta quindi, nonostante gli infiniti rimaneggiamenti in fase di montaggio (e l’inserimento nelle scene finali di sequenze girate addirittura da Stanley Kubrick), di un noir con macchine volanti, di un ‘Missione Alphaville’ (capolavoro di Jean-Luc Godard ambientato in una città del futuro di un’altra galassia). Lo stesso Scott disse “quello che stiamo veramente facendo è un film vecchio di 40 anni collocato 40 anni nel futuro”.

Personalmente, Blade Runner è un film che ho odiato e amato. Ad esempio, del montaggio esistono almeno sette versioni e nessuna che mi convinca appieno. In quella denominata The Final Cut, in cui Scott ha il completo controllo creativo, viene rimossa la voce narrante di Deckard (cosa che fece infuriare Harrison Ford durante le registrazioni) che, seppur spesso inutile e ovvia, mi riporta alla mente i classici noir testé citati. L’ho odiato, non solo perché la storia è, come ho detto, stravolta e priva di tutte le sfumature umane che invece mi hanno fatto amare il libro, ma anche perché noto nella regia di Scott una certa tendenza alla ‘precipitazione’ degli avvenimenti.

In Prometheus, per esempio, il soggetto è fantastico ma il ritmo della narrazione cambia continuamente. In Blade Runner è lo stesso: alcune scene sono lentissime (il che non è necessariamente un difetto), mentre altre sono esageratamente veloci e confuse. L’ho amato, perché il futuro immaginato da Philip K. Dick si è proiettato nella mente di altri artisti, dando a ognuno l’opportunità di arricchire un quadro con un tassello della sua arte, con la sceneggiatura che diventa un pretesto per materializzare una visione.

Dick e Herbert hanno qualcosa in comune: hanno usato sapientemente il futuro. Entrambi si servono degli evidenti privilegi insiti nella scrittura di fantascienza (situazioni impossibili nella letteratura realistica come, ad esempio, poteri paranormali, robot o computer senzienti e viaggi lunghissimi eseguiti in tempi impossibili) senza gli svantaggi connessi (la perdita di credibilità della trama, che è uno dei motivi per cui la fantascienza è stata per lungo tempo la “Cenerentola” dei generi letterari, spesso relegata negli scaffali più alti delle librerie). Entrambi dosano sapientemente i loro super poteri in modo da ottenere il medesimo risultato, portare agli estremi i rapporti tra gli esseri umani per osservarne e descriverne le conseguenze.

E tutto questo senza commettere l’errore di porre l’attenzione sul mezzo, il futuro appunto, regalando così alla settima arte la possibilità di rendere filmicamente quello che c’è al centro di qualsiasi storia, le relazioni d’amore e odio tra esseri viventi

(ed è così dai tempi di Luciano di Samosata, il primo scrittore di fantascienza, II secolo d.C.).

Perché in fondo, come scriveva Jean-Luc Godard nei Cahiers du Cinema, “per fare un film bastano una ragazza e una pistola”. E un androide.

Di Alessio Petrolino

QUID è la nuova rivista digitale del Mensa Italia, l’associazione ad alto Q.I., che raccoglie le competenze e le prospettive personali dei Soci, organizzandole in volumi monografici.

Scaricabile gratuitamente da https://bit.ly/Quid02_ilFuturo

QUID nasce con l’ambizione di confrontarsi senza voler ricomporre a tutti i costi un pensiero rappresentativo e prevalente, per proporre una lettura sempre aperta dei temi che stanno a cuore ai Soci del Mensa Italia.

--

--

Mensa Italia

Il Mensa è un’associazione internazionale senza scopo di lucro di cui possono essere soci coloro che hanno raggiunto o superato il 98º percentile del Q.I.