Un giorno, chissà…

Diario da un possibile futuro.

Mensa Italia
9 min readApr 26, 2020

1° febbraio 2055. Oggi compio cento anni. Quando sono nato era un’ipotesi pressoché leggendaria. Invece, nel giro di una generazione, la mia, eccomi qua in buona compagnia di migliaia di altri centenari, mediamente in buona salute, che non fanno più notizia: ormai i media e le istituzioni si fanno vive solo per chi arriva almeno a 120 anni. Per me sarà comunque una giornata speciale!

Ricordo che ero in piena età lavorativa, circa cinquant’anni fa, quando Ray Kurzweil predicava della ‘singolarità vicina’, un punto di svolta per l’umanità che sposava la tecnologia: l’innalzamento dell’età media, la cura delle malattie più importanti, l’ibridazione tecnologica, l’abbassamento della mortalità e altro del genere.

Quasi ci siamo, almeno per quanto riguarda l’allontanamento della fine della vita. Non l’avrei mai detto ma sono il primo a compiacermene. Certo, non c’è stata proprio quella singolarità eclatante che ci si aspettava, ma sapere che oggi quasi il 70% del nostro corpo è rimpiazzabile da organi bionici, ormai di elevatissima qualità, è confortante. Quando vent’anni fa ho avuto quella brutta caduta sugli sci, con la gamba maciullata sulle rocce e il femore a pezzi, confidavo che mi avrebbero potuto salvare la vita ma ero convinto di passare gli anni successivi su una carrozzina elettronica e attaccato alla dialisi, visto che il mio solo rene (l’altro perso per una malattia in gioventù) non mi avrebbe aiutato molto a recuperare. Invece eccomi qui, più scattante di prima, con questo arto bionico che ha solo l’apparenza della mia vecchia gamba e un rene artificiale che mi consente di godermi un po’ di più quelle T-bone che tanto ho dovuto lesinare nella mia vita.

Fu in quell’occasione che, costretto comunque a letto nel periodo in cui mi ‘rimontavano’, ho deciso di iniziare a scrivere questo diario. Lo so che di solito lo fanno i giovani, ma era allora, a 80 anni, che a me sembrava di vedere una nuova vita da descrivere.

La mia giornata di compleanno è comunque iniziata come al solito: sveglia con l’Allegretto del 2° movimento della Settima sinfonia di Beethoven e poi, visto che indugiavo, Golexis, l’assistente domotico, ha iniziato progressivamente ad alzare anche le tapparelle perché, oltre al suono, fosse il fastidioso baluginio sugli occhi a convincermi ad alzarmi. Lo sa che sono un po’ fotofobico. “Vabbe’, ho capito! Ferma la serranda!” e mi sono alzato. La giornata, però, non è proseguita come al solito.

Stavo ancora scrutando lo spazzolino di micro-monitoraggio che, dopo essermi lavato i denti, mi avvisava di un innalzamento anomalo della flora batterica e suggeriva un controllo a breve, quando ho sentito un forte ronzio vicino alla finestra. Era una consegna. Sono andato ad aprire e il drone-postino aveva appena depositato un pacco bianco e blu davanti alla mia porta. Ho provato a prenderlo ma la fonia automatica mi ha subito ricordato di apporre il mio pollice sul pad, altrimenti non l’avrebbe mai mollato. “Obbedisco!” e poi è volato via in pochi secondi.

Il pacco era di mio nipote Leonardo, che non può lasciare in questo momento il suo lavoro a Bangalore, dove istruisce Empabot, la nuova generazione di robot addetti all’assistenza di disabili e anziani, e pare stiano finendo il collaudo di un nuovo tipo, capace di percepire immediatamente i bisogni da soddisfare da alcuni leggeri impianti neurali degli assistiti. Stanno utilizzando anche componenti con chip a base biologica. È su quello che lui punta tutto, ha delle nuove idee su un loro funzionamento ibrido con la tecnologia del silicio con cui pensa si possano ottenere delle performance di adattamento incredibili. Lo so che il suo sogno è arrivare all’androide perfetto, ma a quella meta ancora il mondo odierno non è arrivato.

Leonardo è il primogenito del mio sfortunato figlio Enrico, un bravo medico, che non si risparmiava nel dare supporto a chi avesse bisogno. Ricordo che in un libro di Al-Khalili, che leggevo un gennaio di qualche decennio fa, c’era scritto: “È praticamente certo che vedremo un’altra grande pandemia virale nell’arco della nostra vita”. Mia madre mi raccontava spesso dell’esperienza della sua famiglia con la Spagnola, alla fine della I guerra mondiale, quando furono decimate intere famiglie e anche molti bambini, lei era ancora piccolissima e se la cavò. A me suonava strano che potessi vivere un’esperienza del genere, nel solco dell’affermazione di quel libro. Pensavo che la nostra civiltà moderna fosse ormai in grado di contenere precocemente pericoli del genere. Eppure poche settimane più tardi scoppiò la pandemia del COVID-19 e, anche grazie all’immaturità e all’egocentrismo di diversi governanti, il caos della pestilenza ricoprì tutto il pianeta. Decine di migliaia di morti che si bruciavano invece di seppellire, senza funerale e senza addii dei parenti desolati, per il rischio di diffusione del morbo. Ne uscimmo distrutti, anche economicamente. Solo un po’ di lungimiranza e sangue freddo salvò la mia famiglia dal disastro completo.

Fu allora che temetti che anche i miei figli o nipoti dovessero subire prima o poi un evento del genere e quando esplose il terribile SARIN-39 in Turchia si prospettò il peggio. Il Coalition for Epidemic Preparedness Innovations aveva ormai da tempo vaccini per tutte le epidemie conosciute della storia recente dell’umanità ma non per quella: i mutanti dei ceppi di coronavirus sono veramente imprevedibili. Non c’era un vaccino ma c’erano i dispositivi tascabili per l’autodiagnosi del contagio e la lezione era stata imparata: col “people tracing” degli apparati digitali furono immediatamente identificati i contagiati e tutti i loro contatti delle ultime 72 ore. Quindi confinate nel giro di due giorni alcune centinaia di persone negli ospedali pandemici della capitale (ormai ogni Stato ne ha almeno uno ogni milione di abitanti), il virus isolato e sequenziato e poi i pazienti curati con le nuove risorse di diagnosi personalizzata e terapie a base di nanosfere: l’epidemia fu stroncata sul nascere, seppure qualche centinaio di morti fu inevitabile. Per i miei amici fu solo una notizia che occupò il telegiornale per qualche settimana e niente più. Non per me, perché mio figlio che seguiva alcuni pazienti indigenti, incapaci sia di autodiagnosticarsi che di comprendere e seguire le indicazioni governative, fu contagiato e, con lui, mia moglie Ada. Li ho persi tutti e due in una manciata di giorni. Sono pochi anni che riesco a parlarne senza groppi alla gola.

Il pacco fu la prima e forse più bella sorpresa di tutta la giornata: conteneva un apparecchio che non mi sembrava di conoscere, un cassone nero oblungo con delle griglie laterali e sulla linea mediana una lunga scanalatura punteggiata in azzurro, con una bombatura centrale. Davanti, un paio di post-it gialli scritti a mano: “Premi qui”, “Poi qui”. Premetti il primo bottone e dalla striscia mediana emerse per tutta lunghezza un’asta nera, sostenuta da un piloncino centrale. Quando premetti il secondo bottone iniziò a ruotare vorticosamente, come mi aspettavo, ma quello che accadde dopo! Dal nulla emersero gli ologrammi della mia cara moglie e di mio figlio. Che dolce dolore rivederli a dimensioni naturali ma anche che grande piacevole commozione! Mai stato così realistico guardare i vecchi video registrati. E non finì lì perché dopo poco arrivarono i miei pronipoti, Astro e Nordio, i figli di Leonardo, ad abbracciare il nonno e la bisnonna che non avevano mai conosciuto! Splendido. Il mio cuore non avrebbe retto se non fosse per il defibrillatore cardiaco impiantabile che mi accompagna da tanti anni. Ho sentito una leggera scossa ma mi sono ripreso presto, mi sono salvato l’ologramma sullo smartphone per averlo sempre con me e poi ho goduto a vedere e rivedere quella scena a lungo.

Troppo a lungo! Stavo per dimenticare le mie cure. D’altra parte è ormai grazie a questa medicina di precisione che riusciamo a mantenerci tutti al meglio, anche i più giovani di me. Da quando gli antibiotici sono diventati pressoché inutili per le accresciute resistenze dei batteri, solo queste dosi di mix personalizzati giornalieri ci aiutano a non crollare per banali infezioni.

Si può fare perché noi stessi, i dati che ci rappresentano, il nostro genoma soprattutto, sono ormai custoditi in una delle immense banche dati che occupano spazi più grandi di una città. D’altra parte, come da tempo il commercio, le comunicazioni, le relazioni sociali, l’istruzione, anche la medicina ormai funziona in base ai dati raccolti. E la sequenziazione personale, come pratica standard perseguita fin dalla nascita, è diventata la maggiore arma per prolungarci la vita: quasi tutte le malattie ereditarie sono curate fin da piccoli, prima che se ne presentino i sintomi.

Certo, non tutti sono pronti a sapere tutto di se stessi e qualcuno non ha retto al peso di sapere di portare dalla nascita un marchio negativo, che poteva trasmettere ai propri figli. Vero che, anche per tale motivo, lo scrupolo ha fatto sì che ci fosse una procreazione molto più responsabile di chi sapeva di avere una malattia ereditaria da trasmettere. Darwin sarebbe stato molto incuriosito da questa nuova modalità di autoselezione su base razionale: dovremmo ancora definirla naturale o piuttosto artificiale?

Adesso devo pensare a organizzare la giornata: fra poco verrà la sola mia figlia rimasta, Alba, accompagnata da sua figlia Topazia e dalla piccola Diamante, la mia pronipote di soli 6 anni ma tanto vivace, i suoi gridolini quando gioca riempiono la casa! E nel pomeriggio ci raggiungerà col marito anche l’altra figlia di Enrico, mia nipote Aurelia, la biologa molecolare che è rimasta qui a Roma, legata alla sua ricerca. Porterà anche la piccola Blanca, nata durante un dottorato a Madrid, che si diverte un mondo a giocare con Diamante! Hanno solo pochi mesi di differenza.

La sorella di Leonardo, per la passione dei suoi studi, ha costretto la sua giovinezza in laboratorio ma almeno alla fine, poco più che trentenne, ha avuto la soddisfazione di partecipare a quella grande vittoria collettiva di un team di scienziati planetario che ha definito i criteri complessivi per combattere l’Alzheimer.

Fatto. Ho dettato il menù direttamente al microonde, specificando i piatti che desideravo assolutamente e la struttura del dolce, per il resto poteva completare da solo purché in modo coerente. Dopo un paio di secondi di lampeggiamenti di verifica mi ha risposto che era tutto chiaro.

Mia figlia Alba è ormai una professionista affermata. Aveva iniziato fin da giovane a realizzare edifici di concezione innovativa ma fu presto sconcertata dall’inflazione di case costruite a tavolino, o meglio, al computer e poi date in pasto alle gigantesche stampanti in 3D, un modulo alla volta. Si uccideva la creatività e si appiattiva il mondo, ma lei capì che l’unica via d’uscita era incanalare l’intelligenza artificiale per produrre soluzioni innovative e oggi è a capo di una florida azienda che opera in tutto il mondo, aiutando a costruire spazi a prezzi contenuti ma a misura d’uomo e ambiente, diversificati e completamente accessoriati tecnologicamente.

La figlia di Alba, mia nipote Topazia, è venuta da Trieste, dove lavora come astrofisica e dove ha messo su famiglia. È brava e non le pesa fare diverse cose insieme ma il suo sogno è nelle stelle, completare quel poco che manca ancora alla comprensione della materia oscura, ora che il quadro sull’energia dell’universo è completo. Invece sua figlia Diamante sogna di andarci nelle stelle, non solo studiarle.

Nel 2035 abbiamo iniziato a esplorare Marte da una stazione stabile sul pianeta (un centinaio di persone). Si era convinti di poter organizzare un’oasi di sopravvivenza su cui trasferire almeno 1 milione di abitanti della Terra (solo per iniziare, qui siamo ormai quasi 10 miliardi) ma l’andamento alterno delle esplorazioni, lo sfavorevole tasso di ossidi delle polveri e l’alto costo di gestione delle riserve idriche stava ostacolando il progetto. Ora, con i propulsori ionici al plasma bastano meno di 40 giorni per arrivare su Marte e le cose sono più gestibili. Finora abbiamo solo grandi strutture emisferiche sintetiche, in cui si sono stabiliti circa 1.500 terrestri ma la Biobricks International sta producendo ormai migliaia di ampolle contenenti cellule sintetiche per la produzione di ossigeno e materiali edili su Marte. Una trovata veramente geniale: invece di trasportare pesanti materiali portiamo solo quel leggero ‘catalizzatore’ in grado di trasformare in mattoni la sabbia marziana! Dicono ora che, sulla base di nuove risorse, si potranno anche generare coltivazioni ibride di nuove specie di vegetali, adattati genomicamente per sopravvivere nel nuovo habitat. Sono pressoché certi che tra vent’anni, nel 2070, avremo già un servizio stabile di viaggi per Marte e saranno ormai nati i primi discendenti sul pianeta.

Un giorno, quindi, se riuscirò a resistere ancora, almeno fino alla soglia dei 120 anni predetti da Kurzweil, forse potrò vedere anche questa nuova avventura dell’uomo. La mia pronipote è pronta in prima linea per andare, per essere “Diamante di Marte”; non aspetta altro, magari si troverà anche un compagno sul pianeta rosso. Mi sembra quasi di leggere un racconto di Ray Bradbury.

Un giorno, dunque — ora che ci penso — potrei avere un discendente marziano. Chissà…

Di Arnaldo Carbone

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