Tu chiamale, se vuoi, emozioni

La sottile differenza tra l’essere unici e l’essere incompresi.

Mensa Italia
7 min readMar 24, 2021

«Vojo parlà co’ Tokyo! Tokyo me capisce!»

(signor Gianni Livore)

Verso la fine degli anni ’90, sulle televisioni di Stato italiane, Corrado Guzzanti proponeva una riflessione tragicomica intorno alla macchietta di Gianni Livore, figura archetipica del complottista alienato che trascorre la propria vita chiuso in casa, in vestaglia, navigando su Internet e imbottendosi di farmaci, nel vano tentativo di rifuggire da una realtà fatta di commercialisti, burocrazia asfissiante e mogli abruzzesi che (come da tradizione) non buttano l’olio e friggono le uova con tanto di guscio. Una realtà che, a detta sua, non lo capiva, a dispetto della Rete che invece accoglieva e assecondava le sue istanze psicotiche.

Ridevamo di gusto osservando incuriositi quel mostro sociale, così lontano dalla quotidianità di allora, tanto da rappresentarne una pericolosa deriva che il comico stigmatizzava in questa versione iperbolica di sub-umano dalla quale, proprio attraverso la risata, prendevamo le distanze.

Curioso come, a fronte di tutto questo, oggi, il signor Livore, che fino a qualche tempo fa costituiva un’eccezione, sia diventato un elemento quasi imprescindibile di qualsiasi compagine sociale, al punto tale da divenire oggetto di interesse da parte delle maggiori imprese a livello globale: Google, Facebook, Amazon fanno appello al signor Livore che c’è dentro ognuno di noi e che oggi (anche a seguito dei recenti eventi legati alla pandemia) emerge prepotentemente ogni qualvolta preferiamo l’algoritmo all’interazione umana.

Come il signor Livore di allora preferiva parlare con Tokyo anziché con sua moglie, il signor Livore di oggi preferisce comprare un televisore su Amazon piuttosto che interfacciarsi con il commesso di una qualsiasi catena di negozi di elettronica, incapace di suggerirgli — al contrario dell’azienda del signor Bezos che, non si sa bene come, riesce sempre a capire di che cosa abbiamo bisogno quando ne abbiamo bisogno — quale modello possa fare al caso suo.

Ecco: è proprio in quel “non si sa bene come” che si gioca la partita del nostro futuro. Che non è solo il futuro di Google, di Facebook o di Amazon, ma anche di quanti contribuiscono al funzionamento di questi business con la risorsa più preziosa: l’essere se stessi, ed esserlo nel modo più fedele possibile, attraverso le proprie emozioni, le proprie scelte e le proprie idee.

Ogni volta che mettiamo una spunta, all’interno di un qualsiasi contratto che abbia per oggetto una transazione commerciale online, mettiamo a disposizione dell’azienda che ci deve servire (in modo più o meno consapevole) informazioni sui nostri gusti e sulle nostre preferenze.

Tali informazioni si manifestano nei modi più disparati: dalla nostra cronologia di navigazione fino ai movimenti del mouse all’interno di un sito o a quello che scriviamo sui nostri profili nei social network, non c’è elemento che un algoritmo informatico non possa essere in grado (oggi o domani) di codificare e interpretare per fornire una risposta adeguata ai nostri bisogni.

L’evoluzione di questa relazione uomo-macchina dipende da due fattori: da un lato dalla complessità crescente degli algoritmi capaci di analizzare sempre meglio e in tempi sempre più brevi quantità di informazioni sempre più grandi; dall’altro dalla disponibilità di ciascun individuo a diventare sempre meno persona e sempre più oggetto di analisi.

Stiamo vivendo un momento storico cruciale in questo senso. Non solo perché stiamo ridefinendo il concetto di privacy e di sfera personale, consentendo a smartphone e ad assistenti virtuali di rimanere continuamente in ascolto delle nostre conversazioni (e questo ben al di là di qualsiasi paranoia complottista), ma, soprattutto, perché stiamo gradualmente e inesorabilmente cambiando la percezione e la considerazione che abbiamo di noi stessi come forme di vita uniche e irripetibili. In questo contesto le nostre emozioni rappresentano la porta d’accesso e la chiave di lettura di un dominio che, fino ad oggi, agli occhi dei nostri simili e delle macchine, era ritenuto imperscrutabile.

Per secoli l’uomo ha tentato di indagare l’essenza dell’individuo, associando le emozioni a particolari esternazioni, come l’espressione facciale, i movimenti degli occhi e delle mani, o le variazioni di colorito della pelle. Questa forma di conoscenza è stata in parte codificata attraverso lo studio della mimica e della fisiognomica, in parte è stata tramandata oralmente come sapere antico, e in parte ha costituito la rara capacità di taluni di “leggere il pensiero” di chi gli stava di fronte. Li abbiamo chiamati in vari modi: stregoni, chiaroveggenti, santoni, mentalisti; una ristretta élite di predestinati capaci di comprendere le persone senza conoscere nulla di loro o del loro passato.

Di questo manipolo di umani speciali, da sempre gli artisti ne costituiscono una fetta importante. La loro capacità di leggere (anzi, di intel-leggere) e interpretare i sentimenti dei gruppi sociali di riferimento trasformandoli in musica, pittura, spettacoli teatrali o in qualsiasi altra forma d’arte ha permesso di elevare la produzione artistica al di sopra delle altre opere dell’intelletto umano.

In tempi più recenti, le scienze sociali hanno fatto emergere figure accademiche e professionali capaci di dare alle emozioni un nome, un’etichetta, e di prevedere il comportamento di individui o di gruppi di individui utilizzando modelli più o meno sofisticati, sui quali fino a oggi gli algoritmi informatici hanno fatto leva.

Tutti gli approcci adottati nella direzione della comprensione dell’animo umano si sono basati però su una serie di generalizzazioni e di approssimazioni che mal si adattano all’uomo inteso come forma biologica unica e irripetibile, forgiata dal proprio DNA e dalle esperienze individuali e perciò diversa da qualsiasi altra.

Fino ad oggi, insomma, il nostro essere unici tra miliardi di esemplari ha rappresentato la scusa per rimanere incompresi e per lasciare a poche persone il privilegio di “entrarci nella testa” e comprendere le nostre emozioni.

Questa nostra imperscrutabilità ci rende unici e per certi aspetti — non possiamo negarlo — questo ci piace, perché ci fa sentire a nostro modo speciali. Ci disperiamo perché il mondo non ci capisce, perché siamo troppo complicati, ma in fondo, ora che il mondo potrebbe essere in grado di capirci, abbiamo paura di perdere la nostra unicità.

Da un punto di vista tecnologico, il punto di svolta sarà legato all’utilizzo di sensori biometrici in grado di rilevare costantemente non soltanto misure oggi considerate scontate, come il battito cardiaco, ma anche (ad esempio) la presenza di determinati ormoni o componenti chimiche nel sangue. L’analisi di queste variabili, combinata agli stimoli dell’ambiente esterno, potrebbe permettere alle macchine di studiare, per ciascun individuo, la modalità assolutamente unica e irripetibile attraverso la quale il suo cervello interpreta gli stimoli esterni, generando emozioni che condizionano azioni, reazioni e scelte di vita. L’utilizzo di queste informazioni permetterebbe poi di sapere quali potrebbero essere gli stimoli più efficaci per ri-orientare il comportamento dell’individuo in questione allo scopo di aumentarne il livello di benessere e soddisfazione.

In un’era in cui l’educazione alle emozioni assume un ruolo cruciale, stiamo costruendo degli strumenti che ci permetteranno di ascoltare in modo esatto e preciso ciò che avviene nella nostra testa, per comprenderlo e, in parte, anche per manipolarlo.

Ciò che forse però non ci stiamo chiedendo con la dovuta insistenza è a chi spetterà l’utilizzo di tali strumenti e con quali finalità. Sarà lecito condividere i nostri feedback emotivi con Spotify per farci consigliare il brano musicale più adatto al mood del momento? E sulla base di quale risultato Spotify deciderà se rendermi più triste o più allegro, più docile o più arrabbiato, più spensierato o più contemplativo? Sarò io a chiederglielo o glielo dirà l’inserzionista di turno in base ai prodotti che deve vendere?

Gli strumenti per digitalizzare le nostre emozioni, trasformandole in e-mozioni, non sono ancora parte del nostro vissuto di tutti i giorni, ma potrebbero presto diventarlo. Spetterà dunque a ciascuno di noi (e ci auguriamo nel modo più consapevole possibile) decidere come condividere con il mondo le nostre emozioni. Un passo importante è stato fatto nell’ultimo decennio con l’avvento del web 3.0, che ha incorporato le nostre emozioni in post, tweet, storie un tempo anonime e oggi, invece, dotate di nome e cognome e pubblicamente disponibili.

Ci sorprendiamo oggi — e talvolta ci inquietiamo — quando pensiamo di acquistare un’automobile nuova e quasi istantaneamente ci troviamo circondati da pubblicità di automobili. Quali emozioni proveremo di fronte a una macchina che sa già tutto di noi prima ancora che glielo diciamo?

In questa transizione tecnologica c’è in ballo molto di più di quanto possiamo minimamente immaginare. Ciò che proviamo, e che la macchina interpreta sotto forma di parametri biologici, è in fondo la vibrazione della nostra anima. È l’eco di un qualcosa di ancora più effimero ed etereo che si esprime attraverso un corpo.

Stiamo percorrendo, a grandi passi, una strada al termine della quale ci attendono risposte ad alcuni dei più grandi interrogativi che da sempre l’uomo si è posto: chi sono io? Di che cosa sono fatto? Qual è il mio posto nel mondo? Interrogativi a cui neanche il Brucaliffo di Alice, in tutta la sua saggezza, sarebbe capace di rispondere. Di fatto lui stesso, come del resto noi ora, si considerava un’incognita.

Di Alessandro Mantini

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