Strategia, valori e business purpose

Il senso della vita delle e nelle aziende.

Mensa Italia
6 min readJul 12, 2021

Lavori per pagarti l’automobile che ti porta a lavoro.

Mi sono imbattuto in questo pensiero, scritto a lettere cubitali con lo spray su di un cavalcavia, mentre stavo rientrando (per l’appunto) con la mia auto dall’ufficio. E forse proprio per questo, quel pensiero, apparentemente così fugace (e forse un po’ scontato), si è trasformato nei giorni successivi in una riflessione più approfondita sul senso della vita e in particolare sul senso della vita lavorativa.

Se vi dicessero che lo scopo ultimo della vostra vita è guadagnare denaro, sareste d’accordo?

E allora perché, invece, quando vi dicono che lo scopo delle imprese è generare profitti, annuite come se fosse un assioma incontrovertibile, una verità di un ovvietà al limite dello sconcertante?

Molti (non tutti, fortunatamente) sono convinti che le imprese siano entità autonome e distaccate dall’esperienza umana e, più grande è l’impresa, maggiore è la percezione di questa distanza, al punto tale che le persone nelle imprese di una certa dimensione smettono di avere un proprio nome e cognome, una propria storia privata, per trasformarsi in una matricola, un ruolo, un ufficio. Si attribuiscono frasi e pensieri ad organi collegiali: il Consiglio di amministrazione, il top management, le linee manageriali, come se dietro queste astrazioni organizzative non ci fossero uomini che agiscono all’interno di patti, accordi, di una serie di vincoli giuridici e morali che regolano tutto ciò che accade in quello specifico ambito.

Un’impresa, qualsiasi impresa, è fatta però prima di tutto di persone che, a vario titolo e con diverse modalità, contribuiscono al funzionamento di questa entità economica più o meno complessa che consuma risorse per generare beni e servizi il cui valore, il più delle volte, è superiore al valore delle risorse stesse. Lavoro, capitali, idee, conoscenze: fattori della produzione in ultima istanza, che vengono stabiliti da un gruppo ben individuato e individuabile di “portatori di interesse” (stakeholders, per usare un termine da addetti ai lavori). Persone, ancora una volta, mosse a dare il proprio contributo nell’impresa per soddisfare i propri bisogni, per raggiungere i propri obiettivi. In una parola: per dare senso alla propria vita.

E allora, se ogni individuo agisce in funzione di un proprio senso della vita e se il senso della vita di ciascuno di noi è così mutabile e variegato, perché le imprese dovrebbero limitare il proprio senso della vita al rispetto di una regola economica uguale per tutti (peraltro piuttosto difficile da seguire di questi tempi)? È solo nel profitto, nella remunerazione di chi apporta i capitali che trova giustificazione questo straordinario moto che occupa gran parte delle nostre vite?

Una domanda simile se l’era posta, tra gli altri, anche Adriano Olivetti. In un discorso del 1955 agli operai dello stabilimento di Pozzuoli si chiedeva e domandava agli uditori: «Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?».

L’illuminato imprenditore aveva trovato una risposta; nello stesso discorso infatti dichiarava: «C’è un fine nella nostra azione di tutti i giorni (…) E senza la prima consapevolezza di questo fine è vano sperare il successo dell’opera che abbiamo intrapresa».

Parlava al plurale Olivetti, cosciente com’era dell’aspetto pluralista dell’impresa: pluralità di mezzi e di talenti, di idee e di punti di vista, di esistenze e di obiettivi e, dunque, in ultimo, pluralità di sensi della vita.

Negli anni ’50 le idee di Adriano Olivetti erano percepite dall’establishment del tempo come rivoluzionarie, talvolta sovversive. Oggi, alla luce del percorso che la società, la storia e la scienza economica hanno fatto a partire dalla prima rivoluzione industriale fino all’era della globalizzazione (e della scoperta di un antropocene sempre più ingombrante e invasivo), possiamo dire che Olivetti, prima di altri, aveva intuito quali fossero i motivi alla base della creazione e della prosecuzione di un’impresa in un certo territorio e in un certo momento storico.

Le imprese nascono perché c’è bisogno di imprese: è necessario creare occupazione per far sì che ciascuno trovi nel lavoro un’opportunità di arricchimento economico e spirituale e una propria dignità all’interno del tessuto sociale; per supportare il progresso delle comunità locali; per creare prodotti in grado di soddisfare bisogni sempre più alti e sofisticati. In questa visione l’impresa, ogni impresa, non nasce per caso e solo sulla spinta di un’opportunità di guadagno. Quel qualcosa “più affascinante” di cui parlava Olivetti è stato oggi individuato dalla dottrina economica del “business purpose” e che noi potremmo tranquillamente definire come “il senso della vita delle imprese”.

Un senso della vita che trova fondamento in una serie di valori condivisi non solo dall’imprenditore o dai soci, ma anche da tutti quelli che con l’impresa hanno a che fare tutti giorni. Valori che si sostanziano in una strategia coerente e si traducono in piani economici e piccole e grandi decisioni quotidiane su che cosa fare e su come farlo. Non per niente, la parola “azienda” deriva dal latino agenda, ossia “cose da fare”.

Se questi valori non sono condivisi, o peggio ancora se non sono neanche compresi e codificati, se questo “senso della vita” non viene esplicitato e non è chiaro a tutti con le stesse modalità, anche l’impresa economicamente più solida rischia di fallire nel momento in cui il solo valore fondante (quello del profitto) viene meno.

È la regola delle imprese, ma più in generale di tutte le forme di organizzazione sociale che troppo spesso falliscono proprio per la mancanza di un obiettivo chiaro e condiviso: club, associazioni, partiti, squadre, nazioni. Senza limiti geografici o di dimensione. Il mondo è pieno di storie di successo e declino di imprese simili, tutte fondamentalmente accomunate da una mancanza o da un’improvvisa perdita dei valori fondanti, dell’obiettivo, del senso stesso dell’impresa.

Ecco quindi che il business purpose diventa una sorta di “senso della vita collettivo”, forse più alto e nobile del senso della vita di ciascuno di noi e che proprio per questo ci permette di essere persone, lavoratori, cittadini migliori. Qualcosa che travalica la parabola di vita del singolo individuo per ambire ad essere un valore intorno al quale costruire nel tempo una forma duratura di civilizzazione, capace di evolversi a partire da un proprio patrimonio genetico culturale che funge da eredità per le generazioni future.

Ritrovando il senso delle comunità in cui viviamo e delle imprese in cui lavoriamo, riusciamo a dare un senso più compiuto anche alle nostre vite e a prendere decisioni sempre più consapevoli, superando dilemmi etici e morali e distorsioni cognitive che ci portano spesso a ripiegarci su noi stessi e sui nostri interessi personali.

Tutto molto bello sulla carta, ma in pratica cosa bisogna fare per scoprire (o riscoprire) il senso della vita di un’impresa?

Sicuramente conoscerne la storia e le radici aiuta molto, ma bisogna avere la consapevolezza che anche i valori più solidi, col tempo, possono evolversi in qualcosa di diverso, inaspettato, probabilmente migliore. Bisogna dunque avere l’umiltà di interrogarsi continuamente su quello che dovrebbe essere, in un dato momento e in un dato contesto, il contributo di un’impresa alle comunità e al territorio in cui opera e sugli impatti che l’agire d’impresa potrebbe avere sulla società e sull’ambiente in termini sia positivi che negativi. Le soluzioni a questo interrogativo vanno poi trovate nel confronto continuo con i propri stakeholder, nel loro coinvolgimento come responsabili, non tanto dei capitali quanto di altri interessi legittimi, che trovano espressione in bisogni e aspettative che meritano di essere ascoltati e tutelati.

Questo, in fondo, significa interrogarsi sulla sostenibilità all’interno delle imprese: abbandonare l’idea di un’asfittica competizione che si traduce in successo per l’impresa e fallimento per tutti gli altri operatori economici, puntando invece a un concetto di prosperità in cui tutti possono beneficiare, sebbene nel lungo periodo, dei frutti di un’azione umana collettiva.

Il senso della vita di un’impresa nasce dunque dall’incontro delle vite di chi entra a contatto con quell’impresa, divenendo così il fattor comune del senso della vita di ciascuno. Con questa visione in mente, anche il dilemma del “vivere per lavorare o lavorare per vivere” diventa tautologico. E certe scritte sul cavalcavia meno provocatorie di quanto possano sembrare.

Di Alessandro Mantini

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