Si può “inventare” la paura?

Mensa Italia
4 min readAug 29, 2022

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Alle origini della scrittura horror

“Le parole creano frasi e le frasi paragrafi. Talvolta questi prendono vita, cominciando a respirare. Se vi va, immaginatevi il mostro di Frankenstein sopra il tavolo operatorio. Ecco il fulmine, non dal cielo, ma da un modesto paragrafo composto da vari vocaboli. Magari è il primo degno di nota che abbiate partorito, così fragile ma ricco di possibilità. Vi sentite come Victor Frankenstein quando il puzzle di cadaveri cuciti insieme spalanca gli occhi gialli e acquosi. Mio Dio, sta respirando, vi dite. Magari addirittura pensando. E ora, che diavolo si fa?”

(Stephen King, On writing)

All’inizio della sua carriera, lo scrittore bostoniano Edgar Allan Poe fu scarsamente apprezzato in patria, pur essendo amato da poeti francesi quali Baudelaire, Mallarmé e Valery, che lo consideravano una sorta di caposcuola del simbolismo.

Poe, inventore dell’horror contemporaneo e del romanzo poliziesco, pietra miliare per registi e per scrittori del calibro di Stephen King, fu anche autore di alcuni scritti teorici di grande interesse sull’arte di scrivere in senso generale.

Nel suo saggio Filosofia della composizione, l’autore critica poeti e narratori che “preferiscono dare a intendere di comporre in una sorta di splendida fantasia, o intuizione estatica”, impedendo al lettore di sbirciare, dietro le quinte, “le crudezze elaborate e vacillanti del pensiero, il senso acchiappato all’ultimo momento […] le selezioni attente, i cauti rifiuti, le dolorose cancellature”: in breve, gli ingranaggi delle proprie opere.

Lo scrittore americano sostiene che un buon racconto dell’orrore, contrariamente a quanto si potrebbe ritenere, non nasce da una fantasia ardita e sbrigliata, ma va invece costruito con la precisione e con il rigore di un teorema matematico. “Preferisco iniziare con la considerazione di un effetto”, afferma Poe. Solo tenendo presente questo, “si può dare a un intreccio il suo necessario aspetto di coerenza, o connessione causale, facendo in modo che, in ogni punto, gli avvenimenti e soprattutto il tono seguano lo sviluppo del suo disegno”. In altre parole, secondo Poe la buona riuscita del racconto è subordinata a una corretta costruzione dell’effetto che intende imprimere nell’intelletto e nel cuore del lettore.

Nel racconto La caduta della casa degli Usher, Poe offre un emblematico esempio del suo modus operandi. La storia inizia con tranquillità, quasi si trattasse di una vicenda ordinaria, per poi incalzare grazie a un’accurata selezione e combinazione di parole, che danno luogo a una disposizione ritmica in grado di produrre, nel lettore, un vero e proprio malessere. Vittorino Andreoli, medico psichiatra, sostiene che proprio quel malessere sia il tratto caratteristico della paura.

Durante una notte gelida e tempestosa, infatti, il protagonista (di cui volontariamente non è menzionato il nome) è sopraffatto da un’inquietudine nervosa che lo spinge a camminare rapidamente avanti e dietro per la stanza in cui si trova, mentre le ore si dileguano e il sonno tarda a venire: «A poco a poco» — afferma spaurito — «tutto il mio essere fu pervaso da un tremito incontenibile, e alla fine un vero e proprio incubo si impossessò del mio cuore, terrorizzandomi senza motivo.»

Il racconto sembra una grande allegoria della paura. La sua costruzione cattura il lettore e produce una sorta di incantesimo che costringe a proseguire fino all’ultima riga della storia, dove il racconto si colora definitivamente del riflesso della personalità di Poe, che era, per sua stessa ammissione, eccezionalmente vibrante e recettiva, ma comunque caratterizzata da angosce, malinconie e, soprattutto, tormenti.

È questo l’altro ingrediente “magico” del racconto dell’orrore: l’oscuro lato della vita dello scrittore che si riflette nei personaggi, in primis nel protagonista.

Nell’epilogo del racconto Berenice, Poe fa dire al protagonista, Egeo: «Era una pagina spaventosa del libro della mia vita, interamente composta da reminiscenze oscure, mostruose e incomprensibili. Invano tentavo di decifrarle, e intanto, di quando in quando, qualcosa come la larva di un suono perduto, un grido acuto e latente […] sembrava risuonarmi nelle orecchie.» La paura del protagonista è paura dell’autore e diventa così anche paura del lettore. A ciò contribuisce l’ultimo tassello della perfetta narrazione dell’orrore: il punto di vista in prima persona, che riesce a far scattare il meccanismo di identificazione e di totale assorbimento: il lettore diventa preda di una malìa irresistibile, di una sorta di rivolo d’acqua che si ingrossa fino a travolgere tutto ciò che incontra.

Si dice che, fra le tante qualità della narrativa, ci sia quella di far riconoscere al lettore, in ogni racconto, personaggi, esperienze, emozioni che appartengono al proprio vissuto. Il racconto dell’orrore è, paradossalmente, in grado di accentuare questa peculiarità.

Il verbo “inventare” deriva dal verbo latino invenire, che veicola il duplice aspetto di cercare e trovare. Se la paura è un’emozione primaria, da sempre presente sia nel genere umano sia nel regno animale, con la funzione adattiva di proteggere l’individuo di fronte a pericoli o minacce, inventare la paura non significa crearla, ma cercarla negli strati profondi della coscienza e, una volta trovata, riportarla in superficie, descrivendola con parole che permettano di coglierne l’essenza.

Poe, con la sua splendida prosa che palpita di “inventiva” ha mostrato al mondo come farlo.

Di Mario Papavero

Classe 1994, giurista e assistente universitario. Tifa Lazio ed è appassionato di NBA.

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