Quando l’immaginazione va in lockdown

Mensa Italia
6 min readApr 28, 2023

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Le restrizioni fisiche degli scorsi mesi hanno limitato la nostra capacità di immaginare? Ne abbiamo parlato con Davide Enia, scrittore, drammaturgo, attore e regista teatrale

L’immaginazione ha tante declinazioni, la maggior parte delle quali associate a un senso di libertà. Che non deve essere necessariamente una libertà fisica, di movimento: basti pensare a Emilio Salgari, che scrisse innumerevoli libri ambientati in luoghi esotici senza tuttavia aver mai viaggiato. Ma cosa succede quando lo stare all’interno di quattro mura non è frutto di una nostra libera scelta, bensì di decisioni arrivate dall’alto? Siamo ancora in grado di far viaggiare la nostra mente, immaginando nuovi mondi e nuove storie, o subentrano altre dinamiche? Davide Enia, tra i più brillanti autori teatrali italiani, ha vissuto sulla sua pelle gli effetti di queste restrizioni, che hanno inevitabilmente inciso sulla sua produzione artistica.

Davide Enia, in queste settimane stai girando nei teatri italiani con “Maggio ’43”. Una voce, talvolta accompagnata dal suono di una chitarra, per raccontare una storia dai risvolti tragici. Storia che a volte è fatta di spari, di rumore, di disperazione. Come si porta questa contraddizione tra il caos di quello che racconti e l’essenzialità del come lo racconti?

La riuscita del mio obiettivo è quando si fa scomparire quello che non si conosce e tutto sembra facile, così come sembra facile a un neofita il taglio della tela di Lucio Fontana, quando in realtà c’è dietro un lavoro di grande ricerca. Quel movimento sembra facile, ma è quella facilità di chi sapeva di anatomia, di colore, d’impasto, di tela, di superfici talmente bene che poi riusciva a eseguire il movimento con la grazia di un giapponese. In “Maggio ‘43”, il lavoro che faccio con continuità da più tempo, c’è una componente autoriale molto forte che si basa sull’incontro con persone che mi hanno raccontato l’esperienza del bombardamento a Palermo nel 1943. L’approccio con la fonte diretta del racconto ci ha fatto chiedere in che modo ascoltare la persona che ha vissuto quell’orrore e in che modo porre le domande. Ho voluto essere sempre presente: come un ipnologo, non mi limitavo a recuperare un testo, ma interpretavo le modalità espressive, le pause e i silenzi che poi diventano scrittura fisica nel teatro e profondità delle parole stesse, il modo in cui vengono nominate o taciute. Un lavoro impegnativo, ma che toccava delle domande che avevano iniziato a pulsare nella mia testa. Quando tanti anni fa sono tornato da un viaggio a Londra, mi sono reso conto che stavo guardando realmente Palermo, la mia città, per la prima volta. Guardavo le macerie dei bombardamenti a cielo aperto, che per noi erano normali, e mi resi conto della discontinuità con il resto del mondo. Questo ha fatto sì che in “Maggio ’43” entrasse con forza l’elemento autobiografico: i 12 anni del protagonista Gioacchino sono i miei 12 anni, quel modo di guardare il mondo, combatterlo e rialzarsi è di quell’adolescente che fui io.

Il tuo “Maggio ‘43” nasce però nel 2004. Il bambino che eri e che racconti non potrebbe, dopo 18 anni, aver automatizzato quell’orrore e quella sorpresa?

La memoria non attenua nulla, lo attenua affrontare il trauma a costo di una grande sofferenza, la sua presa di conoscenza ti permette un processo di distanziamento e separazione da esso. Il lavoro teatrale si permea dell’aspetto performativo, in cui il corpo che inscena si immette nello stato emotivo di chi racconta, vivendo per la prima volta ciò che succede. Quello che sta succedendo nel tempo è che molte delle persone che ho raccontato, come Umbertino, mio zio o Paolo Rossi, non ci sono più: il teatro ti dà la possibilità di entrare in connessione con queste assenze, che diventano presenza importante e un lascito che in maniera misteriosa continua, riverberando nel presente durante lo spettacolo. Per questo non c’è mai un automatismo del sentimento dell’emozione. I cosiddetti “automatismi” sono come per chi impara ad andare in bicicletta. Ci sono delle tecniche per imparare, ma poi tutto il resto dipende da noi. Dopo il lockdown non sapevo come sarebbe stato tornare in scena, ero molto spaventato che avrebbe congelato e reso privo di sangue il lavoro. Invece, come andare in bicicletta, ti salva il corpo: le prove hanno insegnato al corpo come fare e ti aiutano a rimetterti nello spettacolo. Se così non fosse, avrei smesso di fare teatro.

Il lockdown di cui parli ci ha costretto a importanti restrizioni. La solitudine forzata ha in qualche modo alimentato la tua immaginazione?

La prima fase della pandemia l’ho vissuta bene: mi sono rivisto con la mia compagna, anche lei spesso in giro per lavoro, e ho scritto molto. La seconda ondata, invece, l’ho vissuta malissimo e non sono riuscito a fare niente. Si era inaridito il mio desiderio per quello che è successo con i teatri. C’è stato un forte sconforto verso chi gestiva il Paese. Ero in pieno burn-out. È successo a tutti, solo che non se n’è parlato. Quello che è successo nel mio ambiente è stato davvero terribile. Addirittura, c’è stato un momento nella ripartenza in cui si isolava il pubblico a tre metri di distanza in sala. Quello che si stava realizzando in ambito geopolitico, per dirla alla Focò, era moltiplicare il lockdown per ogni singola persona senza che ci fosse una regia dietro. Si rimettevano le persone in teatro e le si “schiantavano” da sole. Come può questo non incidere su un dispositivo nato, cresciuto, mantenuto sul senso di comunità e vicinanza fisica? L’intero dispositivo andava ripensato: questo non è stato fatto.

Immagino subentrino dei dubbi su come proseguire il proprio percorso artistico.

Ti fai domande che non trovano risposta e che influenzano molto la preparazione del nostro lavoro. Ti chiedi cosa succede al pubblico, cosa ha significato isolarlo e lasciarlo da solo. O cosa abbia significato vivere una tournée schivando il Covid come fossimo in “Matrix” e aumentando la responsabilità perché basta un positivo e salta il lavoro di tutti. Ormai io e le persone che lavorano con me oggi usiamo soltanto il condizionale. Prima della pandemia ti avrei detto tutto usando il futuro, il calendario era triennale e quadriennale mentre ora si usa il tempo verbale del condizionale. Gli spettacoli, per non dire i tour internazionali, saltano da un giorno all’altro e quando si fanno spesso dobbiamo trovare mille compromessi, sia tecnici che artistici. Abbiamo l’irruzione e la presa di potere dell’indeterminazione deontologica del progetto.

Ma tutto ciò come ha cambiato la tua capacità di immaginare e raccontare?

Dipende dal mezzo del linguaggio. Se devo scrivere un romanzo sono fatti miei, scrivo e basta con le consuete dinamiche che fanno parte della mia formazione e del mio percorso. Ma se scrivo per il teatro, quindi tendenzialmente con all’orizzonte un presunto debutto, è chiaro che il condizionale entra in gioco. Non posso non pensare a cose molto concrete. Proprio per questo non riesco a immergermi in nuovi progetti: come si può pensare a uno spettacolo che non sei neanche sicuro di poter portare sul palco?

Drammaturgo, scrittore, attore, regista. Come tanti tuoi conterranei siciliani…

La strada la percorre il piede, non il background. La realtà viene vista una sola volta nell’infanzia, il resto è ripetizione, è ricerca di quello che hai visto nell’infanzia. Il luogo nel quale cresci è quello che ti imprime le strutture simboliche che determineranno il tuo sguardo e la tua ricerca, o per andare a cercarlo o per sconfessarlo. L’imprinting, però, è necessario. Poi dove va, va per scelta o per caso, ma il piede ha dentro di sé quell’imprinting.

E questo piede ora dove ti porta?

Il teatro è asse, palcoscenico, calcolo dello spazio, gestione del tempo. Ti insegna una concretezza che fa bene non solo alla scrittura ma anche alla persona. Se fatto bene, è meditazione. Per questo so che il mio piede mi porta inesorabilmente a teatro, per ascoltare quei suoni che mi tengono in quel qui e in quell’ora artistico: è questo il mio orizzonte.

Mattia Sacchi

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