Pierre

Mensa Italia
4 min readAug 29, 2022

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Finalmente la maestra disse al piccolo Pierre: «Ecco, ora puoi alzarti.» L’aveva tenuto accanto a lei per tutta la lezione, seduto di fianco alla cattedra, per spiegargli meglio le divisioni con cui aveva qualche difficoltà. Fu allora che gli occhi di Pierre si fecero lucidi, la labbra si contrassero come per reprimere un dolore novello e due lacrime gli scesero fino al bavero del grembiulino.

«Cosa succede, Pierre?» gli chiese la maestra, accarezzandogli una gota. Pierre un domani avrebbe apprezzato quella domanda invece che “Sei sicuro di stare bene?”, ovvero il suono della finta preoccupazione delle peggiori fidanzate teste di cazzo. Ma Pierre non sapeva ancora di fidanzate. E così disse timido alla maestra: «Non riesco ad alzarmi.»

La maestra lo vedeva sfrigolare sulla sedia, rosso in volto e con gli occhioni liquidi. «Qualche sciocco gli ha fatto lo scherzo del Vinavil?», disse lei rivolgendo uno sguardo severo alla classe. Ma le pareva strano per una classe che da sempre si era dimostrata disciplinata e collaborativa nelle prove ricompensa. Fu così che la maestra si abbassò e notò qualcosa che pendeva da sotto la sedia di Pierre. Ne intravedeva giusto la sagoma, che aveva la forma di un grosso peperone pendulo e oscillante. Poi guardò meglio: la sedia era bucata e l’insospettabile prolasso rettale di Pierre aveva cercato fuga in quel cerchio di nulla.

«Ragazzi, rimanete tutti al banco», disse stentorea la maestra, creando nella scolaresca un misto di paura e insieme curiosità.

La maestra si abbassò sulle ginocchia, all’altezza di Pierre. «Prova a stringere le mie mani», gli disse. E Pierre gliele afferrò come un trapezista tremante. La maestra provò a trarlo dolcemente a sé, mentre un compagno di classe (tale Bruno) teneva ferma la sedia. Il volto di Pierre diventò paonazzo, le vene presero a pulsargli sulle tempie.

Si mordeva il labbro superiore, Pierre, fino a che non ce la fece più ed emise un bercio ancestrale alla moda della Pangea.

Il peperone adesso non voleva tornare nel retto di Pierre, si era gonfiato come fanno i rospi arrabbiati. Quando la trazione cessava, il peperone tornava rilassato, salvo poi irrigidirsi non appena percepiva un nuovo tentativo di Pierre di tirarsi via. E le sue mucose, strofinandosi contro il pioppo spruzzato di coppale della sedia, erogavano rivoli di punti neri rettali che fuoriuscivano come noccioli d’oliva taggiasca, rotolando a terra e continuando a rotolare pure dove non c’era discesa, schiacciandosi all’occorrenza per passare sotto le porte, nuotando a stile libero per oltrepassare le piscine dei ricchi. I capillari scoppiavano inondando di viscoso sangue amaranto il piantito e mille insospettabili brufoli sottopelle rilasciavano rivoli di pus caldo e spumoso come un dentifricio dell’Ade. E a suon di squizzare quel peperone, il retto rilasciò un piccolo anellide albino che cascò sul pavimento e prese a strisciare via dal lago di materia per dirigersi incazzato nero verso la stanza del Direttore Didattico imbracciando un mini fucile di pochi quark.

E così Pierre tornò a sedersi, riprese fiato, la maestra gli asciugò la fronte con un fazzolettino ricamato, gli strinse il viso al seno e gli accarezzò la testa.

«Riproviamo, Pierre?» gli chiese.
«Sì, signora maestra.», rispose diligente Pierre.

La maestra trasformò quell’abbraccio in una solida presa. E mentre Bruno teneva la sedia, lei soffocava il pianto di Pierre sul suo seno e intanto lo sollevava, prendendolo sotto le ascelle.

Il pianto di Pierre nell’ovatta del maglione della maestra diventò il boato lontano d’un malinconico uomo delle nevi. E a quel boato ne seguì un altro e un altro ancora. Intanto il peperone aveva strizzato fuori grappoli di emorroidi che esplosero come quei bagnoschiumini dei motel sull’autostrada da schiacciare fra le dita. E fra quelle emorroidi una più grande, che emorroide non era ma era uno dei polmoni di Pierre, nero di catrame, furani, argento e bestemmie. Poi un rotolo di preservativi usati con il serbatoio pieno di meconio di tutti i cardinali della diocesi. Quindi una voce terribile risuonò dal retto, rallentata, cavernosa e dai toni baritonali. E dal retto fece capolino per un attimo un piccolo viso, come una piccola maschera di cera rappresentante un noto politico della Prima Repubblica che lanciò un atroce ghigno prima di vomitare un uovo sodo e comparire.

«Basta! Basta!» urlò Pierre.

La classe era come ipnotizzata, non volava una mosca, i capelli dei bambini erano ormai quasi tutti bianchi per il patire di quelle ore. Fino a che Pierre, senza chiedere il permesso alla maestra, afferrò dalla cattedra le lunghe forbici con le punte stondate, si piegò e con la mano tremante se le mise attorno al peperone che, al contatto col ferro freddo delle lame, subito si bloccò.

Allora Pierre, mordendo un lembo del grembiulino, chiuse gli occhi per poi sferrare un deciso colpo di forbici, che a sorpresa affondarono come fossero nel burro.

Il peperone rimase come sorpreso, prima di crollare a terra come un’appendice inutile e patetica. Il moncherino perfetto e levigato si aprì quindi come un fiore marziano. E attorno ad esso la realtà iniziò a cambiare. I colori diventavano evanescenti fino a mutare in suoni, gli odori si palesavano come scie glitterate e i suoni assunsero fragranze olfattive tipiche della cucina romagnola. Fu così che la realtà per come la conosciamo venne fagocitata da quell’oscena orchidea di carne.

Sparirono così guerre, bugie, volgarità, calunnie, maschere antigas e quelle cazzo di macchinette per il caffè con le cialde in comodato d’uso.

La maestra: «Che esperienza terribile, non vedo l’ora di rincasare e farmi un bel bagno caldo con mio marito, che amo da morire e per cui darei la vita in ogni momento.»

Pierre: «Anche meno, prof.»

Di Alessandro Gori

Scrittore, comico, laureato in Psicologia, creatore de Lo Sgargabonzi. Ha evocato più volte lo spirito di David Bowie su Rai 2.

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