Paura. Il catalogo è questo.

Mensa Italia
7 min readAug 29, 2022

Quando c’è un buttadentro e tutto appare bello, buono e gratuito, è meglio stare in guardia.

Me ne resi conto in un caldo pomeriggio primaverile di molti anni fa, quando ero ancora un liceale con i capelli lunghi e le guance che avevano frequentato il rasoio solo poche volte.

Un signore distinto mi invitò a entrare in un edificio. Si trattava di un semplice questionario, un breve test per sapere quanto conosciamo noi stessi. Nell’atrio della villetta arredata con oggetti di sobrio lusso moderno, certi addetti in abiti costosi conversavano con persone di ogni tipo. A me toccò un giovane con un abito grigio. Ero incuriosito, come sono sempre stato, ma presto emerse un senso di fastidio, di disagio. Ho sempre dubitato di chi ha troppe certezze e quel ragazzotto, infilato in un vestito che non sembrava suo, sfoggiava una fiducia eccessiva nei contenuti del libro che mi stava proponendo. Lasciai il tomo, salutai cortesemente e mi avviai verso l’atrio, fingendo di non avvertire i molti sguardi elettrici che seguivano i miei movimenti.

All’uscita, proprio accanto alla soglia del grande portone di acciaio e vetro, notai un’immensa pila di libri. Un vero arsenale di carta con la copertina rigida su cui si stagliava il titolo del libro: Dianetics, di L. Ron Hubbard. Seppi e capii cosa fosse Scientology molti anni dopo.

Ecco, oggi mi ritrovo in una situazione analoga.

Il negozio non ha insegna, attraverso le vetrine non si vede niente che faccia capire cosa si vende all’interno, c’è solo un tizio molto cortese che mi invita ad entrare, così, giusto per dare un’occhiata.

L’interno del locale è spazioso, sofisticato ed essenziale. Le pareti sono scure; la luce che penetra dall’esterno riesce a malapena a disegnare lungo il perimetro dell’ambiente il profilo di minimali tavoli di legno scuro su cui sono appoggiati dei cofanetti a distanza regolare l’uno dall’altro.

«Prego», mi incoraggia l’uomo, «faccia con comodo. Veda se c’è qualcosa che può fare al caso suo.»

Mi avvicino a uno dei banchi. Mentre abbasso lo sguardo su uno dei contenitori, penso che sto esponendo le mie vertebre cervicali a una potenziale aggressione alle spalle: se questo signore decidesse di punto in bianco di sbriciolarmi l’osso del collo con un oggetto contundente avrebbe gioco facile. Osservo il cofanetto. Mi ricorda certe costose valigette rigide in cui si disponevano i dischi in vinile. La superficie del cubo è rivestita di tessuto scuro e sul lato anteriore brilla una lucida fibbia metallica. La apro e dentro trovo tanti talloncini di cartone, perfettamente ordinati, come quelli degli archivi delle biblioteche. Anche i titoli di ciascun cartoncino mi sono familiari: sono titoli di famose pellicole o opere letterarie. Ma questa non è una biblioteca, me ne rendo subito conto, è qualcosa di molto più misterioso e molto meno nobile.

L’impeccabile assistente mi fa notare con quale raffinatezza siano stati individuati quei titoli: ognuno rappresenta per l’inconscio collettivo una fobia. Il deserto dei Tartari non è che un discreto sinonimo della paranoia; Il malato immaginario è associato all’ipocondria; Il ritratto di Dorian Gray evoca Oscar Wilde solo per quanto concerne il terrore dell’invecchiamento e del non essere adeguatamente belli agli occhi degli altri.

Mi volto verso il commesso, chiedendogli con lo sguardo se ho capito bene quello che ho sotto agli occhi. Rassicurante e un po’ cerimonioso, annuisce e mi spiega quello che già sapevo benissimo ma che, semplicemente, non avevo mai sentito pronunciare con tanta chiarezza.

«Sono le vostre paure», mi dice. «Il catalogo è questo», aggiunge con un ampio movimento della mano. «Ce n’è per tutti e per tutti i gusti. Vi serve una paura? Ve la cuciamo su misura, ve la incartiamo e vi mettiamo il pacchetto sotto l’albero come un dono di Babbo Natale. È gratis, regalata.»

«In realtà ha dei costi enormi», obietto.

«Sì», sorride il commesso, «ma a voi va bene così. Volete continuare a installare allarmi, a fuggire dalle vostre responsabilità e a credere che sia legittimo circolare con una pistola in una fondina sotto la giacca. La paura piace perché è indispensabile, è il pilastro su cui si regge l’intero sistema, quindi, fate poco gli schizzinosi, scegliete quella che fa al caso vostro e prendetene una o tutte quelle che volete.»

Non so bene cosa replicare, abbasso gli occhi e torno a sfogliare i cartoncini del catalogo.

Mommy. Apprensione. Dov’è? Cosa fa? Quando torna? Con chi è? Mi vuole bene?

La casa di Asterione. Smarrimento: questo labirinto non ha uscita.

Funny games. Terrore. Lasciatevi bullizzare, tremare come foglie può essere molto istruttivo.

La coscienza di Zeno. Timore. Quel piccolo freno, quel minimo attrito che vi impedisce di andare alla vostra velocità.

Mulholland Drive. Panico. Perché non perdere il controllo?

Werther. Timidezza. Paura degli altri o paura di sé?

Mani di forbice. Inadeguatezza. Non andate mai bene, gli altri sono indiscutibilmente meglio di voi.

Metamorfosi. Fobia. Piccioni, ragni, muffe, mare aperto, topi o altri esseri umani: decidete voi cosa vi ripugna.

Colazione da Tiffany. Ansia. Le cose certamente non andranno bene.

Asinaria. Sfiducia. Homo homini lupus, cosa puoi aspettarti da un branco di predatori?

Dieci piccoli indiani. Diffidenza. Non dare a nessuno qualcosa di cui ti puoi occupare solo tu.

Cecità. Angoscia. Il buio ti ha inghiottito.

Don Abbondio. Codardia. Non ti immischiare. Se ti allontani subito senza farti notare, non ti succederà niente.

A beautiful mind. Paranoia. È chiaro, ce l’hanno con te. Prima o poi un modo per fartela pagare lo troveranno.

Poltergeist. Spavento. Ogni schiocco un sussulto, ogni rumore un infarto. La spensieratezza te la puoi scordare.

La donna che visse due volte. Vertigini. Un magnifico baratro che aspetta solo il tuo tuffo.

Gente di Dublino. Esitazione. Hai perso l’ultimo treno, ma quello era proprio l’ultimo.

1984. Pessimismo. La paura del futuro convertita in mentalità.

Brazil. Vanità. Meglio rinunciare ai propri lineamenti che non piacere agli altri.

I cento passi. Omertà. Taci. Se vuoi vivere un giorno ancora, tieni la bocca chiusa.

«Niente male», dico alzando la testa, «proprio un bel campionario, complimenti!»

L’addetto è sempre lì, dritto come una scopa e con un sorriso fiero sulle labbra, come se quelle paure se le fosse inventate lui.

«Però sono costretto a deluderla», continuo. Le mie parole gelano il suo sorriso. Non cambia espressione, ma non ci crede più.

«Purtroppo non prenderò nessuna di queste paure, se le può tenere in questi bellissimi raccoglitori, è il loro posto.»

Quello che prima era un sorriso beffardo si tramuta in un ghigno: «Lei crede davvero di poter fare a meno di noi?» mi domanda il commesso. «Altri, molto più impavidi di lei, si sono arresi prima di quanto pensassero. Pensa davvero di essere così coraggioso?»

Lo guardo un attimo, rifletto sulle sue parole e rispondo flemmaticamente: «No, no, non dico di non avere paura di niente, ci mancherebbe. Però, vede, si tratta sempre di una reazione emotiva, istintiva, un segnale del mio corpo perché io faccia attenzione. Ma non di più. Una stessa paura non può stare in due giorni diversi del mio calendario, gliene concedo uno al massimo. E poi il contrario della paura non è il coraggio. Piuttosto, la pace.»

«Ah», risponde il commesso come se avesse capito tutto, «lei crede che l’amore sia la soluzione a tutti i problemi!»

«No», rispondo io, «ma come vede ho una certa età. Forse, e sottolineo forse, qualche anno fa questa visita avrebbe potuto turbarmi, ma ho visto molto, ho vissuto abbastanza e mi conosco bene: ho scavato, ho indagato, ho esaminato i miei errori e conosco il modo di non ripeterli. Cosa mai dovrei temere? La violenza di qualcuno che non potrà mai alterare le mie convinzioni? O forse il naturale corso degli eventi che negli anni, inevitabilmente, minerà il mio organismo? Voi, spacciatori di paure, pensate che sia sufficiente entrare nelle case tramite i notiziari o infilarvi nei sogni con i vostri mostri. Ma non funzionerà. Talvolta se si sbaglia strada, come quando ci si perde in montagna imboccando il sentiero sbagliato o quando il navigatore ha preso fischi per fiaschi e ti ha mandato completamente fuori strada, l’unico modo per arrivare a destinazione è tornare indietro. È vero, la società contemporanea trova spaventosa l’ovvia necessità di tornare indietro e, pur di non farlo, si rifiuta di ammettere i propri errori, non ricalcola il percorso e cerca una scusa plausibile per rimanere sulla strada sbagliata. Io no, io so tornare indietro. La saluto.»

Mi giro sui tacchi ed esco. Il commesso mi segue fin sulla soglia e mi guarda andar via, regalandomi la più squallida delle minacce: «Non si preoccupi, sappiamo dove trovarla.»

«Venite pure», rispondo andandomene con passo tranquillo, «vi offrirò un caffè.»

Di Lorenzo Scoles

Presentatore televisivo, conduttore radiofonico, autore e regista. Attualmente campa di tempi morti e di sogni assurdi.

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