Non ti curar di loro

Come trovare un proprio senso a prescindere dagli altri.

Mensa Italia
5 min readJul 12, 2021

Se tentassimo di dare un senso alla nostra esistenza in termini cosmologici, non saremmo in grado di formulare correttamente nemmeno la domanda.

Il motivo è semplice: in quanto esseri limitati, vacilliamo di fronte all’infinito; non riusciamo a circoscrivere l’eternità. Per portare avanti questa indagine dunque, dobbiamo necessariamente scendere al nostro livello di esseri umani.

Secondo Aristotele il fine della vita risiede nel raggiungimento della felicità, un processo che passa attraverso la realizzazione di se stessi. Aristotele medesimo definiva questo processo eudaimonia, che significa coltivare il proprio daimon (demone, termine che all’epoca aveva un’accezione del tutto positiva), cioè quella sorta di “ponte” che esiste tra il divino e l’uomo. Si trattava, in definitiva, di coltivare i propri talenti e le proprie inclinazioni, sebbene questi ultimi siano raramente evidenti per la persona che dovrebbe coltivarli e, anche qualora lo fossero, non è inconfutabilmente detto che la realizzazione di un grande talento porti alla realizzazione personale e alla felicità.

Chopin, senza dubbio, era un infelice — morì giovane, solo e malato, nonostante fosse stato uno dei musicisti più geniali di tutti i tempi e avesse raggiunto fama e successo in vita: basta ascoltare qualche sua ballata o qualche notturno per percepirne il peso interiore e le ombre. Causa immanente del suo dramma fu la tubercolosi e, proprio a causa di quest’ultima, nemmeno il suo talento impareggiabile gli fu sufficiente per trovare la serenità. Esempi come quello di Chopin ve ne sono molteplici.

Rimane comunque fondamentale ricercare il senso della propria esistenza realizzando i propri desideri e aspirazioni, ma per comprendere a fondo quali essi siano è necessaria una profonda conoscenza di sé.

È pur vero che il concetto stesso di felicità è sfuggente, quasi quanto il senso stesso della vita. Ciò che chiamiamo felicità è un argomento filosofico che continua a essere dibattuto e che sembra affondare le proprie radici nella nostra cultura.

Il concetto “occidentale” di felicità tende sempre a essere mediato dallo stile di vita e, in qualche modo, dalla tecnologia.

Sempre più spesso e in modo sempre più scientifico, ci viene “imposto” come divertirci, come distinguere il “bello” dal “brutto”, cosa sia “utile” e cosa non lo sia. A questo si aggiungono anche forti influenze su cosa leggere, cosa acquistare, cosa “fare”, che ci portano inconsciamente ad adeguarci a modelli che hanno poco di sostanziale e che sembrano averci trasformato in una civiltà in cui “apparire” risulta più importante che “essere”, vittima dell’omologazione e sempre meno attenta ai propri desideri più autentici e profondi.

La critica più aspra alla civiltà occidentale arriva forse da Heidegger, quasi cento anni fa (Essere e Tempo, Halle, 1927), il quale risulta estremamente profetico quando attesta che “ognuno è gli altri e nessuno è se stesso”.

L’elaborazione di se stessi e delle proprie aspirazioni è un processo complesso, articolato e può risultare un percorso difficile che richiede di non conformarsi, ma di sapersi ascoltare con un orecchio molto fine durante un cammino lungo e tortuoso di auto-conoscenza. Solo arrivati in fondo il giudizio degli altri smette di avere qualunque tipo di rilevanza.

Se le nostre energie fossero prettamente indirizzate a curarci del giudizio altrui, avremmo semplicemente fallito; a quel punto saremmo più impegnati a realizzare non i nostri desideri, ma il volere di qualcun altro.

Certo, non tenere conto del giudizio degli altri non è sempre semplice: in quanto esseri umani siamo naturalmente obbligati a confrontarci col nostro aspetto “sociale”, che ci porta istintivamente a cercare l’approvazione altrui, l’altrui riconoscimento, oggi ancora più che in passato, considerato che tale confronto avviene in maniera costante, immediata e massiva, anche e soprattutto a causa dei social network.

Secondo Tacito “il desiderio di gloria è l’ultima aspirazione alla quale anche l’uomo più saggio rinuncia”, ma è davvero così importante che gli altri siano a conoscenza degli obiettivi che ci siamo prefissati o se li abbiamo raggiunti?

In una novella dal titolo Il miracolo segreto, contenuta nella raccolta Finzioni (Buenos Aires, 1944), Borges racconta la storia di uno scrittore che viene condannato a morte. L’unico rammarico del protagonista è di non poter terminare la propria opera, un dramma teatrale.

Durante la notte precedente alla prima, lo scrittore prega Dio di concedergli ancora un po’ di tempo per completare il lavoro, convinto che riuscire in questo obiettivo gli permetterebbe di giustificare la sua esistenza. Giunta l’alba, lo scrittore si addormenta e, in sogno, ha una visione di Dio che gli concede ancora un anno di tempo.

All’ora prefissata, tuttavia, lo scrittore viene condotto in un cortile davanti al plotone di esecuzione, così come previsto, ma a quel punto il tempo si ferma, tutto rimane immobile proprio nel momento in cui il plotone sta per far fuoco.

Paralizzato e immobile come tutto ciò che lo circonda, lo scrittore capisce che l’anno di tempo che gli era stato promesso gli era anche stato concesso, ma nella forma di un tempo che solo lui era in grado di percepire.

Nel silenzio e nell’immobilità, la sua mente lavora fino a portare a termine il lavoro e, nel momento stesso in cui ci riesce, il tempo torna a scorrere, permettendo ai fucili che aveva puntati contro di ucciderlo.

Tutto si compie in un attimo lungo un anno e, mentre leggiamo, siamo sicuri che il protagonista abbia raggiunto lo scopo della sua vita e che, nel breve momento tra la fine del suo lavoro e la sua morte, egli sia stato felice, conscio di aver portato a realizzazione le proprie aspirazioni, anche se in maniera del tutto inosservata.

Chi siamo e cosa proviamo, sono quindi elementi di conoscenza che possono appartenere soltanto a noi stessi. Solo noi possiamo sapere quanto siamo felici o realizzati.

Il cinema e la letteratura ci offrono molti spunti per elaborare questo concetto, basti pensare alla storia de Il gabbiano Jonathan Livingston o a quella del protagonista del film Quarto potere, il miliardario Charles Keane, che nonostante una vita di ricchezza e fortuna, muore solo e abbandonato da tutti, ritrovando la felicità nel suo ultimo pensiero: uno slittino, simbolo di un’infanzia spensierata e lontanissima.

In definitiva, per scoprire quale sia il fine ultimo della nostra vita, appare più utile guardare dentro noi stessi, e solo dentro noi stessi, piuttosto che fuori. Solo riuscendoci saremo in grado di scorgere la direzione da intraprendere, avventurandoci in un percorso in cui ogni passo finirà inevitabilmente per diventare semplice e spontaneo.

Di Danilo Rusca

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