(Non) ho fatto in tempo ad avere un futuro

I millennials: una generazione che ha tutto, ma ha perso il futuro.

Mensa Italia
7 min readApr 26, 2020

Ciao a tutti, mi chiamo Simone e sono almeno dieci anni che non guardo al futuro.

Ricordo bene che quando ero piccolo, diciamo intorno ai dieci anni ma forse anche prima, avevo ben chiaro quale sarebbe stato il mio percorso nella vita, perlomeno dal punto di vista dei vari traguardi intermedi, mutuati un po’ da quelli che avevo già visto raggiungere ai miei genitori ma consapevole delle maggiori possibilità che avrei potuto avere rispetto a loro.

A ventidue, ventitré anni, laurea in una qualche disciplina importante (ingegneria, medicina, economia); a venticinque, dopo aver ottenuto il primo contratto a tempo indeterminato in una solida azienda del territorio, un matrimonio sicuro e stabile; a ventisette anni, massimo ventotto, sarei stato papà per la prima volta. Certo, avrei dovuto fare qualche sacrificio nell’immediato, ma chi non ne avrebbe fatti con la certezza di avere le spalle coperte da un sistema che aveva sostenuto almeno due generazioni precedenti? Nel mezzo, una casa acquistata con il mutuo, la maggior parte dei trent’anni passata a lavorare e a badare ai figli, la parte finale dei quaranta a iniziare a pensare di godersi la vita avendo costruito il proprio futuro secondo i crismi che, quando ero bambino, erano comunissimi.

Ora, a trentasei anni, guardo davanti a me e vedo solo il giorno dopo. Oddio, magari sto esagerando. Diciamo i prossimi due mesi.

Mi autodenuncio: sono un millennial, ovvero una persona nata tra i primi anni ottanta e la fine del ventesimo secolo (brava, Wikipedia, apprezzo lo sforzo di uniformarti alla nebulosità tipica dei tuttologi. A proposito, sono un tuttologo anche io).

I millennials hanno uno strano rapporto con la consequenzialità temporale; parlando in termini di media statistica, i millennials sono quelli che hanno avuto:

- un bel passato remoto (1982–1999: infanzia e adolescenza tra la Milano da bere, il Breakfast Club, i Goonies, il crollo del muro di Berlino, Jurassic Park, Dawson’s Creek)

- un passato prossimo decoroso (2000–2015: moltissimi hanno avuto l’occasione di studiare all’università e laurearsi, magari non dovendo neppure lavorare fino all’ottenimento della laurea magistrale — e non barate! Se vi siete laureati fuoricorso con il vecchio ordinamento siete aritmeticamente impossibilitati a essere definiti millennials. Inoltre, nessuno ci toglierà mai la vittoria dei Mondiali di calcio del 2006. E adesso ridateci la Gioconda)

- un presente traballante in cui i risultati accademici spesso non coincidono con l’impiego lavorativo (ma congratulazioni se ti sei laureato in lingue con specializzazione in svedese: almeno hai la certezza che i nomi dei mobili dell’Ikea davvero non significano un accidente)

- un futuro che definire incerto è un impossibile esercizio di ottimismo retorico.

Luciano Ligabue, la cui produzione artistica segue più o meno la stessa curva temporale, ha però tirato fuori dal cilindro, come Walter il Mago, (una delle sue più belle canzoni, non a caso scritta nel 1992) un verso che rappresenta appieno ciò che manca di sicuro alla nostra generazione. Ligabue dice, infatti, in una sua canzone del 2016: “Ho fatto in tempo ad avere un futuro”.

Ecco, ai millennials manca questo. Siamo arrivati lunghi. Non abbiamo fatto in tempo. Siamo la generazione che ha tutto, automobili, iPhone, vacanze in Sardegna o ai Caraibi, aperitivi da 100 euro a weekend, e non ha niente da costruire. I nostri genitori hanno sputato lacrime e sangue per costruire quello che hanno e non c’è dubbio che abbiano fatto davvero tanti sacrifici: noi abbiamo trovato la pappa pronta, però il conto ci è arrivato in età adulta.

Vuoi risparmiare per comprare una casa? Bella battuta! Cosa vuoi fare con quei 1.200 euro al mese e un contratto al sesto rinnovo in quattordici mesi? Vuoi fare un figlio? O più d’uno? Auguri! Specialmente se sei donna: mi sa che il settimo rinnovo te lo scordi.

A pensarci bene, il futuro è stato disgregato in modo graduale.

Non è che da un giorno all’altro io mi sia reso conto che la mia generazione non poteva costruirsi un futuro, si è piuttosto trattato di un regolare spostare i paletti di ciò che si sarebbe potuto fare da un certo momento a cinque anni dopo. Ho iniziato a lavorare a ventuno anni mentre finivo di dedicarmi al primo corso di studi, ingegneria: almeno su questo il futuro dei dieci anni si era tramutato in qualcosa di simile. Il mio primo contratto? Un Co.Co.Pro. o Contratto di Collaborazione a Progetto. Il futuro, quello che pensavamo ci spettasse, è stato preso a piccole ma decise picconate dalle forme contrattuali.

Altri Co.Co.Pro. sono seguiti nel campo dell’insegnamento privato, fino al primo lavoro in un’azienda del territorio: una cooperativa solida, con centoquaranta soci lavoratori. Un contratto a tempo indeterminato a venticinque anni! Per un attimo le linee temporali sembravano essersi riallineate. Certo, lo stipendio non era niente di che, ma mi sentivo fortunato. Il futuro! Il futuro era tornato. E invece, appena quattro anni dopo, in barba al mio contratto a tempo indeterminato, l’azienda iniziò ad andare in crisi e infine chiuse, come moltissime altre, e il mio contratto a tempo indeterminato andò ovviamente in fumo, esattamente come il mio futuro.

Durante la crisi, il futuro iniziò a sparire come i ricordi di Joel in “Se mi lasci ti cancello”. L’automobile più grande da prendere a rate? Sparita. Progetti di acquistare una casa più grande in cui costruire una famiglia? Svaniti. Ma come?! Ma se erano qui fino a una settimana fa!?

E poi, piano piano, l’idea di fare rinunce oggi per avere qualcosa domani: dileguata nel nulla, perché non potendo programmare, che senso ha negarsi sia la gallina domani che l’uovo oggi?

Ora, non si tratta di essere pessimisti, né tantomeno di fare di tutta l’erba un fascio. Sicuramente tra di noi c’è chi ha avuto fortuna, o è stato bravissimo, o entrambi, e adesso ha davanti a sé un meraviglioso futuro a cui pensare senza dover contare sull’aiuto dei genitori o qualcosa di simile. Allo stesso tempo ci sarà certamente anche chi starà pensando “Ma che diavolo scrive questo? Io sono un millennial e non solo non ho un futuro, non ho proprio niente. Altro che iPhone, altro che Caraibi: sto leggendo questo articolo sul mio Redmi e spero di riuscire a fare una settimana a ottobre all’Idroscalo”.

D’altra parte non si può negare che, a livello esistenziale, la precarietà dei nostri giorni sia un fardello sufficientemente pesante da piegare forzatamente verso il basso gli angoli della bocca. La precarietà è l’unica certezza che abbiamo nel nostro futuro.

Purtroppo sono le normali regole basilari di domanda e offerta che hanno generato tutto questo: chissà cosa penserebbe Paolo Pietrangeli dell’ironico twist che ha preso la sua immortale Contessa, nel passaggio “Del resto mia cara di che si stupisce / anche l’operaio vuole il figlio dottore / e pensi che ambiente che può venir fuori / non c’è più morale, Contessa”.

I nostri genitori ci hanno voluto dare tutto quello che potevano e sono proprio quelli che ci sono riusciti ad aver creato le condizioni affinché ci venisse tolto un futuro di speranze e ci venisse lasciato un presente di sterile edonismo e vacue, immediate gratificazioni.

Oggi sono un libero professionista e ho completato un secondo percorso di studi in economia. Vivo abbastanza alla giornata e non sono affatto infelice. Siamo passati all’assurdo secondo cui la mia condizione di libera professione è invidiata dai miei coetanei che hanno un regolare contratto di lavoro perché ho in mano il mio destino, almeno per la loro percezione. Quello che una volta era un salvacondotto per un futuro sereno è diventato, causa precarietà, un vincolo ancora più stringente che blocca sul presente.

Se penso al futuro, che cosa posso trovarci? La verità è che non lo so e che ho paura di guardarci. È impossibile fare qualsiasi previsione. L’unica cosa che posso vedere nel futuro, a essere ottimista, è me stesso. Possibilmente sano.

È come se fossimo diventati tutti terribilmente miopi rispetto al futuro, e non c’è alcuna metaforica femtolasik disponibile che ci restituisca una visione a distanza, salvo dosi di coraggio e incoscienza che non possono avere alcun fondamento nella razionalità che si può auspicare in un essere umano.

Ciao a tutti, sono Simone, sono un millennial e sono almeno dieci anni che non guardo al futuro. Benvenuti alla riunione settimanale degli edonisti anonimi.

Di Simone Ferrari

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