Noi siamo memoria

Il tutto è più delle sue parti, ma non sono mai le stesse.

Mensa Italia
8 min readDec 27, 2020

La mente è memoria. Ripeto: la mente “è” memoria. Non “ha” memoria, ma lo è, la memoria la costituisce.

Troppo drastico? D’accordo, chiariamo. Cominciamo col dire cosa intendiamo col termine “memoria”, perché memoria è detto il luogo di ritenzione delle informazioni che intendiamo ricordare ma è anche il contenuto oggetto del ricordo e infine la stessa capacità di estrazione delle informazioni conservate. Ebbene sì, è tutto questo insieme che s’intende con “memoria” quando si parla di un essere umano. Questa complessa entità essenzialmente compresente alla nostra vita, che forma progressivamente l’identità in cui ci riconosciamo: la nostra essenza è frutto della nostra memoria.

Certo, si nasce già con una potenzialità, che è quella che ci è data dal nostro patrimonio genetico, ma è anche vero che, se non avessimo alcun contatto col mondo attraverso i sensi, questo patrimonio nulla potrebbe produrre a livello psichico perché la mente avrebbe una struttura piatta, priva di contenuti, forse neanche si potrebbe dire ‘mente’. L’interazione con qualcos’altro distinto da noi genera informazione, che si annida nelle pliche del cervello e costruisce modelli di interpretazione di quello che percepiamo e modelli di azione per il perseguimento dei nostri bisogni. Nulla potrebbe esserci senza memorizzazione di informazioni da porre in correlazione, dapprima semplicemente per associazione di prossimità fisica e temporale, poi secondo meccanismi sempre più complessi.

L’ormai onnipresente computer, progettato con l’ambizione di riprodurre l’operatività della mente umana, in realtà è costretto a spezzare in oggetti logicamente e fisicamente distinti sia il sistema di memorizzazione dei contenuti, sia il sistema che, operando su di essi, determina il calcolo logico (la decisione).

Memoria digitale e umana non potrebbero essere più diverse.

La memoria del computer rimane una sofisticata organizzazione di oggetti in caselle di scaffali che consente di ritrovare informazioni e scoprire correlazioni tra molteplici dati in pochissimo tempo. I dati che usa però sono sempre là, in quelle caselle, conservati come li abbiamo memorizzati, nient’altro che bit, 0 o 1. Tertium non datur. E quando chiediamo una soluzione a un problema complesso dobbiamo macinare sempre più dati per ottenere una soluzione adeguata e significativa.

Non accade così nella mente umana, la cui intelligenza, per essere esercitata, non richiede necessariamente la memorizzazione di enormi quantità di informazioni, ma sopperisce con l’attitudine a collegare euristicamente, in modo creativo e interessante, informazioni acquisite in passato per risolvere un nuovo problema. Perché la mente umana è un organo molto più flessibile del computer, ha un dinamismo continuo che passa attraverso la sua rete di relazioni neuronali, modulate a ritmo serrato da eventi elettrici, chimici e meccanici. E questa rete, dove la memoria ha luogo (nei vari sensi enunciati), integrando i molteplici contenuti mnestici (gli elementi immagazzinati), reagisce a ogni sensazione esterna che coinvolge (sempre) elementi memorizzati, la cui intensità di registrazione, l’interconnessione, la sequenza temporale con cui li ripercorriamo, determina anche la nostra risposta, sensitiva, motoria o emozionale. Sono i contenuti della nostra memoria, nel loro stesso percorso di affastellamento cronologico nella nostra struttura neuronale, che hanno costituito la nostra mente e indirizzano le nostre decisioni. E quei contenuti cambiano plasticamente nel tempo, non sono immutabili. La loro sinergia, evolvendo con la percezione di quello che ci viene dall’esterno, i nostri umori chimici cerebrali, le sensibilità emozionali — sulla base di un dato genetico fondante — costituisce la nostra essenza, la nostra personalità, il nostro muoverci nel mondo.

Lo stesso atto di memorizzazione non è la fotografia di un fatto ma è sempre una scelta, una selezione compiuta in parte in modo consapevole e in parte in modo inconscio. Siamo bombardati ogni istante da miliardi di informazioni e sensazioni e, non essendo ipermnesici, come il Funes di Borges che non poteva non ricordare ogni foglia di ogni albero incontrato, tratteniamo solo quelle che abbiamo motivo di conservare. Della stessa scena vista insieme ad altri, è esperienza comune ricordare particolari diversi, oltre le evidenze più eclatanti. Anche questa scelta è qualcosa che dipende dall’esperienza precedente, dalla nostra memoria costitutiva e, nel momento in cui la mettiamo in atto, diventa anch’essa agente costituente del nostro essere, come vivo elemento mnestico.

La memoria è la base della nostra identità. Memoria che non è solo strettamente contenuto ideativo cerebrale ma tutto ciò che noi siamo, anche la rappresentazione di ogni nostro gesto, la proceduralità appresa per compiere ogni nostro atto quotidiano, semplice o complesso.

E proprio lì, specie in quei gesti semplici, in quei modi che ci differenziano leggermente dalla stessa azione compiuta da altri, che ci caratterizzano, lì dove ci sentiamo noi stessi, ecco ancora la memoria, grande scultrice, a plasmare da innumerevoli grumi una realtà unica.

Non nasciamo come tabula rasa: istinti, passioni, esigenze vitali, inclinazioni genetiche sono già qualcosa che ci indirizza a essere, ma nella maggior parte dei casi quegli istinti e quelle inclinazioni hanno bisogno di prendere forma per esprimersi verso l’esterno nel corpo, nei gesti e nella voce. Quella forma la costruiamo con ciò che abbiamo a disposizione, con quello che osserviamo, tra cui scegliamo ciò che più ci colpisce, una frase, un’intonazione, un gesto di cui ci appropriamo, per motivi contingenti e transitori a volte ma tanto forti da fissarsi indelebilmente oppure per una situazione ripetuta e ostinata che pervade la nostra vita quotidiana e che facciamo entrare nel nostro essere intimamente.

Se ora riusciamo a pensarci, a isolare quell’atto, quel gesto (caso spesso attuato durante le sedute di psicoanalisi e oggetto di lunghe disamine) ecco che possiamo scoprire una sua provenienza da un’onda antica di ricordi, lo vediamo emergere come dalle onde una bottiglia che ci conduce a un approdo, una riva che era stata un momento importante del nostro viaggio ma non ricordavamo più, seppure in poco tempo ci aveva dato tanto da diventare parte di noi stessi.

Io oggi so benissimo che se metto la mano sul fianco in un certo modo, con il polso appoggiato e il palmo rivolto all’indietro, una posizione non particolarmente comoda per certi versi, ma naturale per me, in realtà sto mimando un mio zio, invalido di guerra, scrittore, plurilaureato, che a quel braccio aveva una mano di legno e spesso l’appoggiava così, in un certo senso per toglierla di mezzo ed essere più libero di operare con l’altra. Io non ho quello scopo eppure, forse per l’affetto che ancora provo per lui, per l’impressione che mi faceva quell’eroe di guerra che ammiravo e che avrei voluto essere, mi ritrovo sovente con la mano in quella posizione.

Quando altre volte, invece, mi raccolgo a riflettere, mi rannicchio con i gomiti appoggiati sulle ginocchia con una mano a coprire metà del viso ma lasciando che l’occhio possa sbirciare tra le dita, allora “so” che in quel momento io sono una delle anime dannate rappresentate nel Giudizio universale di Michelangelo. Sì, anche impressioni significative di elementi del mondo circostante, non solo l’imitazione delle persone vicine, possono diventare parte della nostra memoria costitutiva. Perché abbia scelto quell’anima, quella raffigurazione, quella posizione, non lo so dire bene. Forse perché ho iniziato ad assumerla nel tramonto dell’adolescenza, uno dei periodi più tormentati della mia vita interiore in cui mi sentivo anch’io dannato, imprigionato in qualcosa che sembrava non avere sbocchi? O forse dico così adesso solo per dare una spiegazione, però so che quell’immagine mi aveva sempre colpito fin da ragazzo, più di quelle urlanti degli scuoiati o delle anime salvate e felici. L’ho scelta, ovvero l’ho fissata nella mia memoria ed è diventata talmente parte di me da costituire un mio modo di essere, da rappresentarmi, da collocarmi nel mondo in un certo momento.

Da quando nasciamo continuiamo a scegliere qualcosa, dalle persone o da ciò che ci attornia, che desideriamo venga a esser parte di noi e lo introiettiamo, cioè lo assimiliamo nel nostro essere profondo. Ogni nostro singolo tratto o gesto proviene ed è simile a quello di tanti altri, ma la sua composizione è sempre unica, non statica ma continuamente rimodulata dalle nuove esperienze, anche solo interiori, le nostre riflessioni.

L’essere noi stessi è essere un collage unico e irripetibile, istante per istante, della memoria di ciò che abbiamo tratto dal mondo e dagli altri.

La memoria è anche il nostro distendersi del tempo: la raffigurazione del passato nel ricordo, la reazione al presente contestualizzando le informazioni memorizzate, la progettazione del futuro ricercando nuove relazioni e possibilità nella connessione delle nostre riserve mentali. Tutto vive nella nostra modulazione e proposizione delle reti mnemoniche che attiviamo per ricordare, decidere, progettare. Lì vive il tempo.

In un mondo in cui il tempo è ormai un concetto relativo, tanto da scorrere più lentamente per chi viaggia più veloce e più rapidamente per chi sta più in alto, che ora per molti fisici è ormai una variabile opzionale tranquillamente eliminabile nella scrittura delle equazioni che enunciano quello che gli uomini sono in grado di dire della realtà fisica, per noi, passeggeri della vita, il tempo è una presenza essenziale, condizionante l’esistenza e il nostro modo di essere, ma soprattutto è anche una nostra produzione mentale, l’organizzazione della nostra esperienza.

Il tempo è per noi la nostra memoria del tempo. Una memoria viva e attiva ma indotta anche a errori e revisioni: ogni volta che ripensiamo a un fatto accaduto magari perdiamo un particolare, ne notiamo un altro, a volte lo enunciamo diversamente.

Quasi mai un ricordo è lo stesso quando lo richiamiamo, a meno di particolare esercizio per tenerlo presente. Questo vuol dire che stiamo continuamente modificando, magari, anche di poco, il nostro passato. Perché il passato è passato, non esiste più; cambiare la nostra memoria del passato è in qualche modo cambiare il nostro stesso passato e con lui noi stessi.

Allo stesso tempo, sulla base di quello che la nostra memoria ritiene, possiamo compiere voli acrobatici nel connettere logicamente entità concrete e astratte per generare idee sorprendenti, soluzioni a problemi, ipotesi di azioni e accadimenti. Possiamo progettare modi di essere e di fare ancora non sperimentati. Lo facciamo continuamente. Non possiamo vivere senza pensare a cosa faremo. L’uomo è un essere progettante.

Cambiamo il passato nel cambiare i nostri ricordi, modelliamo il presente continuamente e progettiamo il futuro.

Come per George Bailey de La vita è meravigliosa (Cosa accadrebbe se non fossi mai nato?) l’influenza della nostra vita nel mondo non è mai trascurabile. La nostra vita va al di là del tempo della nostra vita. Cambiando la nostra memoria, l’organizzazione dei nostri contenuti mentali, ricombiniamo in qualche modo il nostro passato, lo ricordiamo e riviviamo in modo diverso, ma cambiamo anche il nostro futuro generando nuove possibilità di orizzonti da costruire. E tutto questo cambia noi stessi ogni giorno. E nella nostra interazione col mondo cambia un po’ anche il prossimo, nell’essere noi lo stimolo del cambiamento della memoria degli altri e quindi del loro passato e del loro futuro.

Tutto questo ci rende continuamente differenti e, si spera, migliori.

Noi siamo memoria.

Di Arnaldo Carbone.

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