Noi e Cartesio: la persistenza di un errore

“L’uomo non divida ciò che la natura unisce.”

Mensa Italia
7 min readNov 10, 2021

Dodici-tredici anni, credo. Ero un ragazzino cresciuto in bambagia che aveva scoperto la strada, gli amici di zona e i gruppi: noi “i piccoli” e loro “i grandi”, di almeno vent’anni, che vagavano nei paraggi scherzando, fumando e chiacchierando. Spesso ci accodavamo a loro, tollerati.

Quella sera il discorso si era fatto serio, uno diceva all’altro che non era più sicuro di nulla, tanto meno dell’esistenza di Dio come origine del mondo, al limite neanche era certo dell’esistenza del mondo: «Tutto questo che vedo attorno, come so che esiste veramente? Forse nulla esiste ed è solo una mia illusione».

Non so con quale faccia tosta, data la mia timidezza, m’intromisi nella lunga pausa dell’interlocutore e mi venne logico dire: «Magari nulla esiste attorno ma non puoi dire che nulla esiste, perché al minimo c’è chi sta pensando che tutto è un’illusione». Di nuovo silenzio, poi guardò l’amico sconfortato: «Mi ha smontato!», si girò e se ne andò con l’altro cambiando discorso. Pochi anni dopo capii che avevo desunto il cogito ergo sum, che un certo signor Descartes aveva posto come unica certezza inamovibile a pilastro dell’esistenza.

Quel Descartes aveva però poi supposto che la certezza di una res cogitans fosse troppo poco, perché bene o male tutti — cogitando — percepiamo di avere un corpo. Per cui aggiunse qualcos’altro: la res extensa, misurabile, il noi che si muove nel mondo. Realizzando così la perfetta separazione (come entità distinte) e unione (solo tramite Dio e la ghiandola pineale) di corpo (res extensa) e anima (la mente, lo spirito, res cogitans), tanto cara alle religioni del tempo.

Duecento anni dopo, nel Vermont, un incidente cambia la vita di Phineas Gage, venticinquenne caposquadra della Rutland & Burlington Railroad, atletico, il “più efficiente e capace” tra gli assunti. Il pomeriggio del 13 settembre 1848, Gage si appresta a far saltare una roccia che ostruisce il percorso, come molte altre volte. Il foro va riempito con polvere da sparo, miccia e poi con sabbia da pestare prima di innescare l’esplosione, da indirizzare alla roccia. Ma Gage viene distratto e inizia a pestare prima che versino la sabbia. L’esplosione è violentissima. La barra metallica penetra nella guancia sinistra di Gage, fora il cranio, attraversa la parte frontale del cervello ed esce, velocissima, dalla sommità della testa, per cadere, cosparsa di sangue e tessuto cerebrale, a trenta metri di distanza. Lui è scagliato a terra e giace stordito. Poi si rialza e da solo va a farsi curare. Harlow, il medico, riporta «…si potevano vedere chiaramente le pulsazioni del cervello… Mentre gli esaminavo la ferita, Gage raccontava in che modo era stato colpito: parlava con tale lucidità… che rivolsi le mie domande a lui piuttosto che a coloro che erano presenti… non lo considerai men che perfettamente razionale».

Eppure Gage non era più lui. Fino all’incidente aveva avuto “una mente assai equilibrata ed era considerato un uomo avveduto nei suoi affari, molto energico e tenace nel perseguire tutti i programmi che si fosse prefisso”. Ora invece era bizzarro, insolente, capace di grossolane imprecazioni, assenti prima; poco riguardoso verso i compagni, insofferente di vincoli o consigli, a volte ostinato, altre instabile, sempre pronto a elaborare programmi per il futuro che abbandonava non appena delineati.

Parte da qui la riflessione di Antonio Damasio, uno dei massimi neuroscienziati attuali, circa centotrenta anni più tardi. Il caso del trentenne Elliot — simile per conseguenze a quello di Gage ma diverso per origine (asportazione chirurgica di un meningioma frontale) — fornisce ‘materiale vivo’ su cui ragionare. Elliot sembrava integro: ottimi risultati ai test cognitivi, memoria intatta, comportamento calmo (non come Gage). Era in grado di valutare per una situazione ogni opzione e le sue conseguenze, anzi ne studiava ogni possibile dettaglio ma non concludeva, non concretizzava alcuna decisione. Ne conseguirono perdita del lavoro, investimenti disastrosi, fallimento di due matrimoni, accuse di simulazione, perdita di sussidi. Non era stupido ma agiva come lo fosse.

E inoltre, anzi soprattutto, raccontava la tragedia della propria situazione con distacco. Non provava più emozioni, positive o negative che fossero, e se ne rendeva conto. «Sapeva ma non sentiva».

Il sistema decisionale prefrontale svolge azioni di raccordo e categorizzazione delle informazioni provenienti dalle altre aree e sistemi cerebrali, compreso quello limbico, sede delle emozioni primarie. Una sua lesione comporta una menomazione di ragione e sentimento. Per semplificare possiamo dire che le nostre esperienze sono memorizzate in diverse aree cerebrali, in relazione a percezioni e a pensieri con cui le abbiamo vissute. La corteccia prefrontale ne raccoglie il catalogo, come per una ricetta: memorizza ingredienti e dosi da cui ricostruire la visione interna di un certo stato, costituente l’esperienza. La ‘dose’, il peso di ogni componente — marcatore somatico (Damasio) — dipende dalla qualità e dall’intensità dell’esperienza pregressa. Nell’esperienza in corso i richiami ad elementi psichici passati, contigui o analoghi ai presenti, consentono di prendere decisioni opportune riguardo la nostra vita personale, sociale e lavorativa, sfoltendo rapidamente le opzioni (fig. 1).

Senza il contributo delle emozioni, la loro memoria implicita e il legame con il sistema decisionale non saremmo in grado di prendere decisioni adeguate o comunque avere comportamenti coerenti. Non saremmo noi stessi.

Antonio Damasio (L’errore di Cartesio, 1995) giunse a dimostrare come i sistemi cerebrali siano strettamente correlati al vissuto corporeo che li va a costituire: i sentimenti sono il legame duraturo che si stabilisce tra mente e corpo in un flusso di interscambio continuo, tanto che la prima non potrebbe generarsi senza il secondo e questi non potrebbe sopravvivere senza la prima, congiunti in un’entità unica.

Il cervello è un supersistema di sistemi in cui i singoli gradi della gerarchia hanno una propria funzionalità, ma composti in aggregazioni funzionali vengono ad avere ulteriori e più complesse funzioni (v. fig. 2) che si evolvono nel tempo, con la storia esperienziale della persona. Un complesso sistema dinamico, dunque, che si alimenta dei flussi percettivi che giungono dall’esterno.

La storica suddivisione tra mente e corpo viene così abbattuta completamente: il corpo si fa mediatore della rappresentazione del mondo esterno in noi e genera una funzione di coordinazione, la mente, per incamerare questa rappresentazione. Il processo decisionale adattativo richiama tali rappresentazioni per supportare la scelta della risposta più efficace agli stimoli.

Da alcuni decenni invece, la scienza insegue il mito della riproduzione della mente umana, tramite intelligenza artificiale, compiendo tre errori:

I) confondere l’insieme complesso con un suo sottoinsieme, la capacità logica, e quindi supponendo apparati capaci di altissima computazione e deduzione logica in grado di riprodurre meccanismi mentali;

II) riprodurre l’errore cartesiano, ovvero supporre riproducibile una mente analoga all’umana separatamente da un corpo. Anche nei più evoluti sistemi robotici, sensibili all’ambiente, l’apprendimento è sempre basato su una semplificazione algoritmica degli stimoli esterni, che nelle persone sono appresi perché anche percepiti internamente e con meccanismi empatici, per cui possiamo riconoscere in noi un vissuto corporeo analogo a quello che vediamo nell’altro;

III) non considerare la fondamentale coloritura emozionale delle rappresentazioni che incameriamo, le quali hanno, oltre al peso, un verso fondamentale e condizionante, relativo al piacere o al non-piacere dell’esperienza, non previsto nello sviluppo di IA.

La ricerca sull’IA, partendo dalla sfida lanciata dal test di Turing, ha dimenticato che la peculiarità fondamentale dell’intelligenza biologica risiede nell’interazione evolutiva con l’ambiente esterno, mediata dal corpo. Anche la proliferazione di sensori ha come risultante una determinazione algoritmica. Non esiste la modulazione mediata anche chimicamente dall’ambiente, che avviene diversamente in ogni essere umano.

La nostra essenza nasce da un processo naturale che in lenta, lunga ma sorprendente costruzione evolutiva adattativa ha generato, da una struttura corporea animale, una sottostruttura di assistenza alla stessa, il cervello, in grado di archiviare le informazioni e utilizzarle per prevedere meglio le scelte future. Inoltre, dalla differenziazione e interlocuzione tra i circuiti cerebrali è sorta quella ulteriore consapevolezza dell’esserci, la configurazione di un sé, che definisce la coscienza.

Dunque quello che a Cartesio, a me e a tutti, sembrava logico, va rivisto, perché ora è evidente che noi siamo, e quindi pensiamo.

Di Arnaldo Carbone

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