Nessun uomo è un’isola

“No man is an Island, entire of itself; every man is a piece of the Continent, a part of the main.”

Mensa Italia
6 min readJul 12, 2021

Una sera d’estate di quasi duecento anni fa, Percy Shelley si preparava a salpare da Livorno per Lerici, dove lo aspettava la seconda moglie, Mary. A Livorno aveva incontrato l’amico Byron per discutere di una collaborazione letteraria, e portava in tasca un libro di poesie di Keats.

Oggi, a qualche chilometro di distanza da Lerici, si trova l’Acquario di Genova. Visitandolo, ci si imbatte nell’enorme vasca dove sguazzano gli squali insieme a banchi di pesci anonimi che, oltre a migliorare la coreografia, servono anche come occasionale spuntino per i loro compagni di prigionia.

Ogni tanto uno squalo inghiotte con nonchalance uno dei tanti pesci che gli nuotano intorno alla bocca, cancellandolo dall’esistenza, anzi trasformandolo in carburante. Trasformazione a cui tutti saremo soggetti e che poeticamente dovrebbe riportarci a essere stelle, essendo ogni cosa organica e inorganica fatta della stessa materia siderale. Peccato che arrivare alla trasformazione sia spesso difficile e doloroso.

Anche senza abbracciare integralmente la filosofia di Schopenhauer, capita a tutti di affrontare periodi in cui sembra che la vita sia “come un pendolo che oscilla incessantemente fra noia e dolore, con intervalli fugaci, e per di più illusori, di piacere e gioia”, dove “per di più illusori” dà il colpo di grazia.

Essere coscienti di esistere senza sapere cosa facciamo sulla Terra e perché dobbiamo soffrire durante la permanenza sembra apportare pochi vantaggi pratici. Per sopportare la condizione umana sono state elaborate numerose teorie consolatorie e, quando tutto fallisce, resta sempre il drastico rimedio studiato in dettaglio da Durkheim, sociologo francese del XIX secolo che pubblicò un noto saggio sul suicidio.

Secondo Durkheim (e studi successivi), la percentuale di suicidi sembra diminuire durante la guerra: ciò potrebbe essere spiegato dal fatto che gli aspiranti suicidi approfittano della situazione (a loro favorevole) per estinguere la propria esistenza oppure che le situazioni estreme aiutano a ridimensionare i problemi individuali, rinforzando i legami sociali.

Evoluti in piccoli gruppi poiché la solitudine equivaleva a una condanna a morte, col diffondersi della stanzialità gli uomini iniziarono a risiedere in villaggi, città, comunità e regioni.

Nascere in una famiglia residente in una specifica regione garantiva in genere risposte preargomentate ai dubbi della vita. Conformarsi alle dottrine locali, oltre a proteggere dall’emarginazione, permetteva di definire lo scopo dell’esistenza senza innescare ulteriori dubbi e ricerche. Inoltre, la limitazione della libertà era compensata dalla protezione contro pericoli imprevedibili e cementava il sentimento di “appartenenza” a qualcosa di più grande (e in teoria più duraturo) di una singola esistenza.

I legami erano in genere fortificati dalla religione che su un piano spirituale provvedeva a placare l’ansia da mortalità, mentre su un piano più pratico promuoveva sentimenti tribali di coesione contro il nemico esterno. Chi non accettava l’ortodossia entrava automaticamente nel gruppo degli eretici, un gruppo minoritario e dunque ad alto rischio di mortalità precoce.

Le fila degli eretici s’ingrossarono fino a provocare mutamenti radicali nelle relazioni umane con la creazione di grandi gruppi transnazionali uniti da ideali politici, destinati a vita relativamente breve ed estremamente dolorosa. Al fallimento delle ideologie di massa del XIX secolo è seguita la crescita disordinata di reti di cooperazione basate sul commercio e in equilibrio precario tra egoismo e utilitarismo.

Il proliferare dell’individualismo è in antitesi con il perseguimento di obiettivi comuni, anche se a volte dietro a scelte che sembrano coraggiosamente individuali si trovano categorie di soggetti disorganizzati e apartitici, come i litigiosi che trovano la ragione di esistere nella “protesta” fine a se stessa; i distruttori, che vogliono costruire una società perfetta sulle macerie del passato; gli integralisti, arroccati nella strenua difesa del loro credo, sia esso ateo o religioso; i nichilisti, che negando ogni teologia e ideologia si trovano ad annaspare nel vuoto, o la loro abbondante sottocategoria di autodistruttivi, che tendono a colmare il vuoto con attività ad alto rischio e abusi di ogni sostanza lecita e illecita. Quello che accomuna questi soggetti è il pessimismo e, spesso, un atteggiamento censorio e intransigente.

La categoria più numerosa rimane comunque quella di chi non ha interesse per le speculazioni esistenziali, sia per mancanza di motivazioni che di energia, e segue svogliatamente la corrente negativa più in voga al momento.

In mancanza di chiare risposte collettive al “cosa ci facciamo qui?” ha molto successo la ricerca della felicità individuale. Il fiorire di libri, corsi, e consigli sull’argomento comincia a denotare disperazione. “Do you want to be right or happy?” tuonano minacciosi gli oltre 6 miliardi di risultati di una ricerca su Google, perché “aver ragione non implica necessariamente essere felici, ma se siamo felici non ci importa avere torto o ragione”.

Peccato che la felicità non sia raggiungibile come scopo primario della vita ma solo come risultato di ulteriori attività.

L’unico fattore permanente dell’esistenza umana è quello che Viktor Frankl (sopravvissuto ai campi di concentramento e autore di Man’s Search for Meaning) chiamava la tragica triade di sofferenza, senso di colpa e morte.

Ispirandosi al buddismo, Frankl suggerisce che la sola strategia per dare senso alla vita è la consapevolezza dei propri limiti e del dover affrontare una sfida al massimo delle nostre capacità. L’importante nella vita, quindi, non è avere successo, ma accettare i limiti e il fallimento col morale alto.

Anche se le dimensioni degli acquari sono cresciute e non ne vediamo le pareti di vetro, è un’illusione pensare che non esistano più. Non possiamo fuggire dalla nostra vasca, ma capire se siamo squali, sardine o pesci palla aiuta a valutare l’ampiezza della navigazione che ci è concessa e a formulare una strategia per le nostre battaglie, senza scordare che le nostre motivazioni, anche se sembrano assolutamente uniche e personali, dipendono in parte dalle circostanze.

Ad esempio, nell’Inghilterra del XIX secolo intrisa di romanticismo, Lord Byron considerò la lotta degli indipendentisti greci contro l’Impero ottomano come una buona ragione per vivere e per morire; poche situazioni hanno più pathos del piccolo Davide contro il grande Golia, destinato in genere a una tragica e romantica fine, e solo occasionalmente al successo.

I suoi contemporanei Shelley e Keats, che formavano con lui la triade di poeti anglosassoni — giovani, belli e maledetti — non si interessarono alle questioni greche, ma trovarono comunque una fine tragica. La sera dell’8 luglio 1822 Shelley, neanche trentenne, annegò nel mare tra Livorno e Lerici, dopo una vita intensa e turbolenta e, pare, poco felice e Keats, che neanche si aspettava una lunga vita felice, morì di tubercolosi a Roma a venticinque anni, chiedendo che sulla lapide non fosse inciso il suo nome, ma solo l’epitaffio “Here lies one whose name was written in water”, dimostrando così di avere capito come stavano le cose.

Lo scopo del singolo potrebbe dunque compiersi nell’imparare ad accettare la responsabilità individuale, riconoscere la propria specifica vocazione o missione, lavorare per adempiere ai compiti che appaiono più congeniali e soprattutto accettare le inevitabili sconfitte, cercando di non sprecare nell’isolamento quest’opportunità unica di realizzazione che è la vita accanto agli altri.

Di Daniela R.Giusti

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