Memorie di fango
Come arredare il proprio habitat e non affogarci dentro.
Ogni azione, reazione o comportamento risulta strettamente dipendente dalla memoria.
La memoria cementa la base della conoscenza umana, ne riempie le crepe, la rende solida come pietra. Può capitare che venga meno o che si intorbidisca, creando alterazioni pericolose e inficiando l’efficacia della condotta nel presente, minando senza riguardi il futuro. Ed è così che le pietre della conoscenza possono staccarsi, creare una valanga difficilmente arrestabile, ferire in profondità, generare morte. Non solo a livello individuale: la memoria è, infatti, patrimonio collettivo, che possiamo contribuire a forgiare e che troviamo allo stesso tempo dentro e fuori di noi.
Il concetto di “memoria collettiva”, introdotto per la prima volta nelle scienze sociali da Maurice Halbwachs, sociologo e filosofo francese, autore del testo I quadri sociali della memoria, pubblicato nel 1925, fa proprio riferimento a un patrimonio di ricordi condiviso grazie al quale una comunità può riconoscersi, raccontarsi e basare la propria identità culturale: è la storia del gruppo, narrata in modo da dare significato al presente e solidità a un futuro in continuo divenire. Non si ottiene, quindi, sommando semplicemente e acriticamente le singole memorie individuali: ogni apporto, infatti, non permette soltanto di arricchire la quantità di contenuti, ma allo stesso tempo interagisce con gli altri e li trasforma. La memoria collettiva ha quindi sia funzione ricostruttiva sia funzione interpretativa del passato, scrivendo la storia identitaria di una collettività, narrazione che viene trasmessa in maniera solo in parte consapevole di generazione in generazione. Quasi superfluo, quindi, rilevarne la potenza e la strategica importanza.
Ovviamente, memoria collettiva e memoria individuale sono in stretta relazione biunivoca e agiscono, di conseguenza, l’una sull’altra, poiché la nostra capacità di attribuire un senso alla realtà e sedimentare memoria è necessariamente influenzata dal contesto socio-culturale nel quale abitiamo e che a nostra volta contribuiamo a caratterizzare. Un circolo, per il quale non possiamo tollerare l’attributo di “vizioso” e che possiamo curare, anche attraverso singoli progetti di autonarrazione.
Un esempio ne è il progetto DiMMi — Diari Multimediali Migranti, nato nel 2012 con il sostegno di Regione Toscana e oggi condiviso da un’ampia rete di partner nazionali. DiMMi ha come obiettivo primario la costruzione di una memoria collettiva inclusiva, capace di valorizzare le diverse esperienze e i ricordi di coloro che abitano in Italia e provengono da Paesi stranieri, offrendo una bussola per orientarsi nella molteplicità delle narrazioni. All’interno dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano è stato costituito un fondo speciale contenente i diari di migranti di prima e seconda generazione, al fine di promuovere il dialogo a partire dal racconto autobiografico; ogni anno l’archivio viene arricchito con nuove storie anche grazie a un concorso collegato al progetto, giunto alla quinta edizione, la cui cerimonia di premiazione permette di diffondere l’iniziativa, tessere legami e ri-conoscersi nella storia dell’altro da sé. Dal 2018, inoltre, la casa editrice Terre di Mezzo pubblica, in volumi curati da Alessandro Triulzi, le storie finaliste: l’archivio apre se stesso e viaggia verso librerie e biblioteche prima di entrare nelle case di lettrici e lettori.
La scrittura è uno dei rimedi possibili contro il pericolo della perdita di memoria o della sua alterazione. «Scrivere è qualcosa per cui mi sento nata, è un luogo in cui mi sento a mio agio. Scrivere mi porta via il dolore, e mi dà pace»: questo riporta una scrittrice di DiMMi, Azzurra, ragazza nigeriana albina, rielaborando il proprio tragico vissuto. E Dominique, giovane ivoriano, ci ricorda che il linguaggio è performativo, capace di generare realtà: «La vita di un richiedente è molto dura. Si deve riprendere la propria vita da zero, non si ha alcuna conoscenza della lingua del Paese di accoglienza. Ci si deve adattare a una nuova cultura, da ciò l’importanza della lingua». Igiaba Scego, scrittrice, parlando del progetto, ci invita a riflettere e a restituire dignità e importanza alle soggettività relegate ai margini: «Per molti toccare con mano queste parole, il loro stile personalissimo, è la rivelazione delle paure e dei sogni più intimi. Significa anche toccare con mano la realtà che non ci viene raccontata dal mainstream. È una esperienza che, anche se individuale, diventa di fatto collettiva».
Dal collettivo all’individuale e viceversa, con la volontà di intrecciare fili e formare un circolo virtuoso. Perché sono migliaia le persone che arrivano nel nostro Paese e non hanno voce. Persone che cambiano il corso della Storia, che incidono tracce nella nostra vita e che, continuamente, perdiamo, lasciando spazio alla manipolazione della realtà e della memoria. Al di là di confini e di frontiere, che si presentano come invalicabili, queste parole devono essere riscattate, strappate dall’oblio al quale sembrano essere condannate e accolte come un prezioso regalo, come tasselli di civiltà.
L’insieme delle narrazioni autobiografiche contribuisce alla creazione della Storia della nostra società, superando il limite e la parzialità delle storie individuali. Tutte le testimonianze e, di conseguenza, tutte le memorie incrementano il proprio potenziale nell’incontro con l’alterità: la prossimità si trasforma in vicinanza, permettendo di guardare se stessi attraverso il riflesso cangiante negli occhi dell’altro e di abbattere quei muri che non sono solo politici, ma albergano dentro di noi.
Noi, che nella nostra precarietà rischiamo di portarci dentro, di costruirci intorno e di trasmettere una memoria collettiva che non è cemento, ma banale fango.
Di Massimiliano Bertelli
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