Memoria e intelligenza artificiale
Oggi l’uomo apprende dalle macchine e viceversa, ma cosa ci riserva il futuro?
Memoria: se ne può parlare in termini filosofici (Platone la definiva “conservazione della sensazione”), la si può misurare (grazie ai test cognitivi) e classificare in diversi tipi (sensoriale, a breve termine, a lungo termine). Quel che è certo, però, è che il processo di memorizzazione e di apprendimento è ritenuto ancora oggi uno tra i più complessi e inesplorati, almeno in parte.
Oggi, ad esempio, sappiamo molto rispetto all’evoluzione della memoria durante la vita: nei primi anni è soprattutto motoria, di tipo procedurale, responsabile dell’esecuzione corretta del movimento, in seguito sopraggiunge quella iconica (relativa alle immagini mentali, che permette di rammentare oggetti e figure) e solo successivamente subentra la memoria linguistica, responsabile dell’apprendimento e della memorizzazione delle parole.
Sappiamo poi qualcosa in più in merito a come il sonno influisca sul processo di consolidamento della memoria: Ralitsa Todorova e Michael Zugaro, ricercatori del Centro per la ricerca interdisciplinare in biologia (che comprende il CNRS, il Collège de France e l’Inserm), hanno scoperto che le onde delta, tipiche del sonno profondo, aiutano nella formazione della memoria a lungo termine.
“In effetti il sonno non è solo passivo, ma è attivo, svolge un vero lavoro di pulizia e di selezione delle esperienze del giorno vissuto” spiega il professore Liborio Parrino, direttore del Centro di Medicina del Sonno dell’Università degli Studi di Parma.
Attenzione, però, aggiunge: “Se l’obiettivo è quello di favorire l’apprendimento e la memorizzazione a lungo termine, è bene evitare ciò che sembra ostacolare le onde delta, tra cui l’uso delle benzodiazepine come cura per l’insonnia.”
Tuttavia, mancano ancora moltissimi pezzi del puzzle. Oggi però, grazie al supporto di innovativi algoritmi di intelligenza artificiale, è possibile comprendere meglio come funzionano alcuni meccanismi legati alla memorizzazione e addirittura come poter intervenire in caso di patologie degenerative. È questo il caso di alcuni studi condotti sui malati di Alzheimer.
Come sappiamo, contrapposta a quella a lungo termine vi è la memoria a breve termine, o memoria di lavoro, un meccanismo che permette di elaborare e manipolare informazioni in tempi brevi, finché occorre, a seconda del compito specifico che stiamo svolgendo. Se, per esempio, siamo impegnati in un discorso, la memoria a breve termine consente di rammentare ciò che abbiamo detto poco prima, così da imbastire un ragionamento coerente e logico.
È la memoria a breve termine quella che si ‘inceppa’ nei malati di Alzheimer (mentre la memoria a lungo termine risulta tendenzialmente meno colpita, almeno in una prima fase della malattia).
Nello specifico è stato possibile sfruttare algoritmi e intelligenza artificiale per comprendere meglio come si instaura la malattia durante la primissima fase: i ricercatori dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR-ISTC), dell’Università Campus Bio-Medico di Roma e dell’IRCCS Istituto Neurologico Mediterraneo Neuromed hanno individuato uno dei primi segni della malattia all’interno dell’area tegmentale ventrale (VTA), un insieme di neuroni nei pressi della linea mediana sul pavimento del mesencefalo, responsabili, tra le altre cose, dei fenomeni di assuefazione, motivazione e cognizione, e ne hanno poi simulato lo sviluppo mediante l’intelligenza artificiale, con l’obiettivo di poter riuscire un giorno a rallentare o addirittura bloccare la degenerazione progressiva causata dall’Alzheimer.
Ma l’intelligenza artificiale può aiutare tutti noi a rafforzare la nostra memoria.
È questo il senso della ricerca portata avanti da Michael Kahana, professore di psicologia dell’Università della Pennsylvania. Il suo team è riuscito, infatti, a sfruttare gli algoritmi di apprendimento automatico per costruire un modello dell’attività cerebrale di persone impegnate nella memorizzazione di parole.
Si tratta di modelli personalizzati, costruiti ad hoc sul singolo individuo e in grado di prevederne i successivi comportamenti. Non solo: gli algoritmi, tramite l’utilizzo di elettrodi, sono in grado di stimolare l’attività cerebrale dell’individuo. “Un sistema a circuito chiuso ci consente di registrare lo stato del cervello del soggetto, analizzarlo e decidere se attivare una stimolazione, il tutto in poche centinaia di millisecondi”, spiega Kahana.
I risultati sono incoraggianti: intervenendo opportunamente sugli elettrodi — grazie all’algoritmo di apprendimento automatico — è possibile migliorare la memoria dei partecipanti al test, ottenendo punteggi in media più alti del 15%.
I ricercatori di Google sono andati anche oltre arrivando a chiedersi se lo studio del cervello umano possa migliorare l’intelligenza artificiale.
Gli algoritmi di apprendimento automatico infatti vengono allenati per risolvere uno specifico problema ma di fatto non apprendono in base all’esperienza acquisita, ripartendo da zero quando gli si presenta un problema diverso.
I ricercatori hanno quindi preso spunto dal meccanismo di memorizzazione e apprendimento tipico dell’uomo, che, tra le altre cose, ha la tendenza a rinforzare le connessioni importanti così da mantenere vive solo le informazioni fondamentali.
Un algoritmo costruito ad hoc ha assegnato un peso specifico alle connessioni di una rete neurale che aveva come obiettivo risolvere un preciso compito. Questa intelligenza artificiale è stata poi impegnata in una serie di giochi ed enigmi dove ha utilizzato le connessioni create in precedenza. Le performance sono state migliori di qualsiasi essere umano ma peggiori rispetto a un’intelligenza artificiale allenata a un compito specifico.
Insomma, se l’intelligenza artificiale può migliorare la nostra capacità di memorizzazione è vero anche che gli algoritmi di apprendimento automatico possono essere perfezionati osservando come funziona il nostro cervello. C’è ancora tanta strada da fare in entrambi i sensi ma, tutto ciò, dove ci porterà?
Se una macchina è in grado di imparare dalla propria esperienza grazie a innovativi algoritmi di apprendimento automatico, senza essere dunque vincolata a uno specifico problema da risolvere, si potrebbe pensare che, in futuro, possa essere in grado di ragionare come un umano. In effetti, le intelligenze artificiali stanno diventando sempre più simili al cervello umano: sono in grado di generalizzare e utilizzare la memoria, e, in un futuro molto vicino, potrebbero anche essere capaci di spiegare le proprie ragioni.
Perché, come afferma Tommi Jakkola, professore di informatica del MIT, “giustificare le decisioni prese sarà una questione decisiva per i sistemi complessi: le intelligenze artificiali devono imparare a comunicare con noi”.
Di Alessia Martalò
QUID è la rivista digitale del Mensa Italia, l’associazione ad alto Q.I., che raccoglie le competenze e le prospettive personali dei Soci, organizzandole in volumi monografici.
Scaricabile gratuitamente da
QUI.
QUID nasce con l’ambizione di confrontarsi senza voler ricomporre a tutti i costi un pensiero rappresentativo e prevalente, per proporre una lettura sempre aperta dei temi che stanno a cuore ai Soci del Mensa Italia