L’istantanea di una bugia
Quando il ricordo altera la memoria.
Fellini ha avuto sicuramente un’infanzia straordinaria. Oppure no. Non lo sapremo mai. Perché al maestro piaceva mentire. Era un professionista della bugia, un mentitore seriale, una persona avvezza a far accadere il passato, anche recentissimo, in maniera diversa, speciale.
La memoria, o meglio ancora, la manipolazione della memoria era il suo piacere quotidiano. Fellini, infatti, sapeva benissimo di poter gestire i suoi ricordi come meglio voleva. Anzi, li ha resi appositamente cinematografici e spettacolari per necessità filmiche, ma anche per soddisfare il suo ego che stuoli di pseudo intellettuali lusingavano gridando al capolavoro ancor prima dell’uscita del film in sala.
Certamente anche la memoria dei film precedenti gioca un fattore importante, spesso basilare, nella costruzione di uno zoccolo duro sul quale costruire il proprio fedele pubblico di evangelisti cinematografici. Fellini, conscio anche di questo aspetto, ha quindi trasformato le sue metamemorie nella sua arte e ha trovato un alter ego, Marcello Mastroianni, che le vivesse sullo schermo esattamente come lui avrebbe voluto viverle. Ad esempio, nel finale di 8½, Marcello / Federico è circondato da tutti i personaggi del film, in una sorta di anticipazione di quello che avverrà dieci anni dopo con Amarcord. Quest’ultimo è, infatti, un’operazione di metabolizzazione della memoria ancora più elaborata, dove l’azione di riedizione dei ricordi viene spinta al limite, romanzandoli e adattandoli come nella scena dell’abbraccio generale, ovvero l’accettazione di tutti i trascorsi, indipendentemente dalla loro natura.
Perché il cinema, in effetti, è memoria della memoria.
Capita, a volte, di rivivere i nostri ricordi come se fossero filmati dalla macchina da presa, o, al contrario, facciamo nostre scene di un film, importandole come trascorsi personali. Questo perché la memoria siamo noi, interamente permeati dagli stimoli esterni che diventano improvvisamente nostri e vengono immagazzinati nelle zone più inaccessibili del nostro cervello. Poi, a distanza di tempo, riaffiorano per essere rielaborati, sempre che non siano già stati sviluppati dal subconscio in infiniti istanti di comprensione (chi non ha mai sperimentato quel fenomeno noto come effetto Mandela?)
Spesso però la memoria gioca brutti scherzi, soprattutto quella che non ci appartiene. In Kapò (1959) di Gillo Pontecorvo, ambientato in un campo di concentramento, il regista decide di utilizzare un movimento di macchina particolarmente artistico per enfatizzare un momento drammatico, ovvero il suicidio di una delle protagoniste contro il filo spinato. Jacques Rivette, esponente della Nouvelle Vague ma anche critico cinematografico, interpreta quel movimento come una riprovevole spettacolarizzazione di un momento drammatico, come una reinterpretazione amorale della memoria dell’Olocausto. Di conseguenza, lo stronca pubblicamente (e forse anche per questo il film fu candidato all’Oscar), mentre l’intento di Pontecorvo era tutt’altro: rappresentare l’indifferenza degli altri prigionieri che, marciando, assistono, forzatamente assenti, al dramma che si sta consumando davanti ai loro occhi.
La cancellazione della memoria gioca invece un ruolo importante nella vicenda della pellicola Notte e nebbia (1955) di Alain Resnais, sempre a tema Shoah. Il documentario, commissionato dal Comité d’histoire, si snoda tra immagini originali girate nei campi di concentramento in contrapposizione a scene a colori filmate dal regista negli stessi luoghi, ormai abbandonati. Il film, presentato al festival di Cannes, fu poi frettolosamente ritirato. In quel periodo, infatti, la Germania stava volutamente cercando di perdere la memoria di quella che neanche dieci anni prima era stata rivelata al mondo come ‘Soluzione finale’, ovvero l’orribile genocidio che i nazisti in fuga cercarono di nascondere, cancellandone ove possibile le prove. Da qui la richiesta di ritirare il film dal festival, cosa che Resnais commentò con «Non sapevo che al festival di Cannes il Governo nazista avesse una sua rappresentanza».
Questi casi, per così dire estremi, evidenziano il valore del medium cinematografico, che è in grado di cambiare la memoria anche senza doverla necessariamente rispettare, e spesso con risultati interessanti, proprio come in Fur — un ritratto immaginario di Diane Arbus. Nel film del regista Steven Shainberg la storia della geniale fotografa viene integrata con delle memorie visive altre, ispirate dalle foto scattate dall’artista stessa alle persone emarginate.
Questo romantic drama, che vede protagonisti Nicole Kidman e Robert Downey Jr., prende spunto dal libro di Patricia Bosworth Diane Arbus: A Biography, una vera e propria riscrittura di una parte della vita della fotografa, che risulta come un omaggio, ma non solo. La Bosworth, infatti, ha compiuto un’operazione di creazione della memoria che prima non esisteva a partire dalle stesse foto della Arbus, la quale, per certi versi, ha compiuto a sua volta un’operazione simile.
Diane Arbus ha infatti lavorato principalmente con gli emarginati per sottolineare l’importanza di una corretta rappresentazione di tutti gli individui. Nei suoi scatti la fotografa ha colto una vasta gamma di soggetti, tra cui membri della comunità LGBTQ+, spogliarelliste, artisti di strada, nudisti e nani. Ha fotografato però le persone in ambienti familiari, come le loro case, per strada, sul posto di lavoro o al parco. In questo modo ha dato — o ridato — dignità alle persone, ma per certi versi ha anche modificato, e addirittura stravolto, il ricordo che quegli stessi soggetti avevano di sé. È così che l’istante da lei catturato si trasforma in una manipolazione della realtà e l’oggetto che la sensibilità dello strumento fotografico immortala assume forme estranee, alterando ciò che siamo, o più semplicemente diventando una bugia.
In generale, manipolare la memoria diventa per l’artista, qualsiasi artista, un antidoto al rischio di veder attaccare la propria creazione dal mostro della soggettività, oppure un sostituto del passato, che non può essere narrato se non con opportuni aggiustamenti. Questo perché il fare arte è necessariamente un’alterazione della memoria.
Creare è allo stesso tempo mentire. Lo fanno tutte le arti, ma è nel cinema che la finzione assume le caratteristiche demiurgiche della creazione di un mondo altro ma vividissimo: una vita più vera o verosimile della vita stessa.
Di Alessio Petrolino e Alessia Scali
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