L’infinito vagare del progresso
Una ricerca troppo affannosa della perfezione può dare luogo a qualche problemino.
Sali su una roccia, sulle vette del mondo, lo contempli, lo temi.
Davanti a te si apre un mare di nebbia, tumultuoso e dinamico, che ti ricorda quanto minima sia l’umanità nel suo stesso habitat. È questo il destino in cui incappa necessariamente l’homo viator, il pellegrino urbanizzato, che scopre, si affascina, a volte si spaura persino, ma rimane sempre ben saldo con i piedi sul terreno, anche se impervio, anche se inospitale.
L’Anonimo de Il Sublime dice: «Grande è veramente solo quello che impone una lunga meditazione, al cui fascino è difficile, se non impossibile, sottrarsi e permane nella memoria vivo e incancellabile», preannunciando così la stessa filosofia e la stessa retorica della montagna che ci trasmise Messner, dicendoci che quando sali non devi chiederti dove vai, che devi imparare a tentare anche i sentieri sbagliati, che l’essere umano deve tornare in simbiosi con la natura, deve scoprire l’estremo, insomma: ciò che l’avveduto borghese non farebbe mai, e che invece l’esploratore contemporaneo — borghese antiborghese — ha imparato a fare in massa, tanto che, ormai, nel vedere la parete scoscesa di una diga punteggiata di animali conviene sempre chiedersi se siano caprette o arrampicatori.
A quale orizzonte tendono le umani sorti e progressive? Che sia radicale, che sia liquida, che sia post-, la modernità ci ha regalato l’idea che come mondo stiamo andando verso una direzione; il vettore-somma di quel brulicare umano che è il presente non è immediatamente chiaro, e quindi diviene oggetto di interpretazione: della critica, ma anche della politica.
Quello che invece permea la maggior parte delle narrazioni, soprattutto quelle pubbliche, è l’idea che, se non una direzione, quantomeno vi sia una tendenza verso il miglioramento, verso il progresso. È un concetto, un’idea la cui nascita è difficilmente riscontrabile nel passato, non essendo puntiforme, ma che ha sicuramente trovato uno statuto di legittimità con l’affermarsi del Positivismo francese. Il dato di realtà, e soprattutto l’idea che dall’urto controllato tra soggetto e oggetto potesse scaturire una conoscenza sopraffina, persino totale, sono stati motori di una visione del mondo come “mondo che avanza”.
Sviluppo tecnologico, scientifico e umano si trovavano a essere intrecciati in maniera indissolubile, tre ambiti che insieme garantivano la bontà della proposta di cui erano vettori. «La vita ha sempre, finché dura, nuove attrattive da sostituire a quelle disperse dalla sua stessa inconsapevole ferocia» scriveva Luigi Capuana, figura di spicco nel panorama letterario positivista italiano: andare avanti, “pro-gredire”, appunto, era un imperativo sociale ed economico, a cui sono state devote le riforme dell’Istruzione, per garantire a tutti la possibilità di stare nel progresso, le riforme dell’Igiene Pubblica, per consentire a tutti di vivere in salute abbastanza da stare nel progresso e non ammalarsi di progresso, le riforme del Lavoro, perché se è vero che, come ci dice la fisica, W = F * s (il Lavoro è uguale alla Forza per lo spostamento) dobbiamo anche ricordarci che quella F è prodotta da macchine umane, corpi ibridati con la tecnologia della catena di montaggio.
Persino negli sguardi del Quarto Stato rappresentato da Pellizza da Volpedo, benché quelle persone del progresso industriale abbiano vissuto lo schiacciamento, vedono davanti a sé nuove sorti di emancipazione e speranza. La domanda che ha fatto crollare il castello di carte di queste condizioni è stata una, breve e banale: “Fino a che punto?”
Il paradigma della crescita infinita, l’ubriacatura confluita nella Belle Époque (in tutte le sue multiformi riedizioni) a un certo punto si è attenuata, e ha rivelato qualcosa di diverso. Il progresso? Genera alienazione. L’industrializzazione? Produce inquinamento e sfruttamento.
Tanto che la stessa modernità è divenuta oggetto di critica, quantomeno a livello di stili di vita, il solo ambito in cui si osserva una riduzione volontaria delle comodità e del superfluo — due effetti di cui la modernità sembra non riuscire a fare a meno.
Il fatto che culturalmente si sia assistito a un progresso che ha significato principalmente sviluppo industriale ha consolidato un’idea ancora più tossica, se semplificata, che è quella dell’evoluzione come lotta tra essere umano e natura.
Il paradigma dell’incompletezza, la visione secondo cui l’essere umano sia un primate dopotutto inadatto a stare al mondo, si nutre di un darwinismo scolastico incapace di vedere al di là di evoluzione e selezione naturale. Il paradosso che genera è che una simile visione, così ridotta ai minimi termini, crea un perimetro in cui coesistono tanto l’idea grandiosa di progresso della specie (appunto, l’evoluzione) quanto quella dell’inadeguatezza umana.
Un darwinismo più maturo, invece, mette al centro il concetto di pressione selettiva, che per certi versi condivide con l’idea generale di evoluzione alcuni aspetti dinamici, ma con differenze importanti: la selezione del miglior candidato avviene attraverso l’interazione specifica tra quell’individuo, quell’ambiente e la configurazione che entrambi assumono in quella particolare occasione.
La fitness non è una caratteristica intrinseca di un organismo, ma possiede una componente di eventualità che, da sola, risolve ogni pulsione retorica: non c’è nessuna Natura, non c’è nessun Uomo, ci sono invece tante entità che si arrangiano con quanto hanno a disposizione e che, sfiga permettendo, a volte riescono a lasciare una firma genetica e culturale nel mondo. La pressione selettiva, però, introduce una forma di reiterazione, ossia ogni nuovo equilibrio basato sulla goodness of fit locale esercita una nuova spinta evolutiva. La falena di Manchester (Biston Betularia), divenuta da bianca a nera, si è adattata alla nuova nicchia ecologica, in cui le cortecce delle betulle erano annerite dai fumi del carbone bruciato nelle fabbriche, ristabilendo un equilibrio basato su un vantaggio; tuttavia, questa novità ha iniziato essa stessa a esercitare una pressione selettiva sugli altri abitanti della stessa nicchia, per esempio i ragni, o i gufi, che a loro volta hanno sviluppato nuove strategie; e quindi, anche alle falene inizia a diventare insufficiente il solo mimetismo.
La pressione selettiva è come il rastrello delle fiches: esercita una pressione sulle entità di una stessa nicchia, le fa muovere lungo una traiettoria contingente, e queste non si muoveranno linearmente, qualcuna scivolerà persino fuori e rimarrà indietro; allora si dovrà rastrellare di nuovo, ossia gli effetti inattesi della prima rastrellata verranno corretti con una nuova rastrellata, in una reiterazione potenzialmente infinita.
Questo mutamento di prospettiva ha importanti conseguenze, ne considererei due che mi stanno a cuore. La prima riguarda il rapporto tra burocrazia e società. L’evoluzionismo giuridico ha peccato dello stesso entusiasmo di quello biologico: credere che una grande linea del tempo, disposta orizzontalmente nel flusso di esistenza, stesse spingendo in avanti il mondo intero migliorandolo. Un po’ come nel progresso delle rivoluzioni scientifiche á la Kuhn, anche leggi e norme progredirebbero secondo questa visione per successive riforme, migliorando di volta in volta, invece, ciò che si verifica è che ogni riforma provoca effetti collaterali inattesi, che vanno poi contenuti e regolati con norme ausiliarie, le quali a loro volta producono ulteriori
effetti inattesi indesiderati che devono essere corretti con successive norme, che vanno via via stratificandosi.
La seconda considerazione riguarda la felicità. Le condizioni che ci rendono felici in un dato periodo, con la loro stessa persistenza danno luogo a effetti secondari, imprevedibili, alcuni dei quali generano insoddisfazione: nel film Alfie, Jude Law lo rappresenta bene quando parla del momento “Oh oh”, cioè quell’istante in cui i piccoli dettagli di quella compagnia, fino a quel momento piacevole, iniziano a ridurne la piacevolezza. Si apre così una nuova pressione selettiva, collaterale, che porta a un rivolo di cambiamento la cui direzione non era prevedibile, e che cerca di correggere gli effetti indesiderati, e così via. Persino la ricchezza non riesce a procurare felicità a lungo, anzi, sostare per troppo tempo nel benessere economico produce infelicità, come constatò il professore di economia Richard Easterlin quando diede il proprio nome al celebre paradosso: dopo un po’, anche nella ricchezza proliferano problemi inaspettati, che andrebbero affrontati con nuove preoccupazioni e nuove spese, che vanno però a ridurre la ricchezza iniziale che va quindi incrementata ulteriormente. Insomma, sembra proprio che ogni volta che si raggiunge uno stato di equilibrio ai margini di questo inizino a muoversi frattali di problemi, e che la sola cosa che ci rimane da fare è rimetterci
in movimento.
Di Armando Toscano