L’inaspettata virtù dell’errore
Quando l’imprevisto è un’opportunità.
“Bruce non vuole proprio saperne. Nessuno dei Bruce”. È il maggio del 1974 e un giovane regista promettente di nome Steven Spielberg sta per affrontare la lavorazione di un film che si rivelerà un incubo per lui e un serio problema per tutta la produzione.
I Bruce in questione sono tre e non hanno l’aria molto rassicurante. Ognuno di loro è una grigia ed enorme creatura meccanica con occhi freddi e una bocca di quasi un metro con file di denti triangolari in fibra di vetro. Costati ognuno duecentocinquantamila dollari erano tutti diversi tra loro: uno riproduceva la sagoma di un enorme squalo bianco e doveva essere utilizzato per le riprese ravvicinate, gli altri due erano stati pensati per i movimenti verso sinistra e verso destra e avevano un lato cavo per permettere di manovrarli agevolmente dall’interno.
Joe Alves, il costruttore dei pescioni meccanici, per andare sul sicuro li testò nelle vasche degli Universal Studios con esito positivo. Ovviamente il risultato sul set fu diverso: il più grosso dei Bruce, lungo appena 7,5 m, si inabissò appena fu messo in mare. L’errore di Alves fu proprio quello di non considerare che, a parità di volume, l’acqua salata pesa più della dolce e, in più, il cloruro di sodio ha la cattiva abitudine di logorare velocemente il funzionamento di elettronica, pistoni e macchine idrauliche.
Per un ingenuo errore di valutazione quindi (e le continue indisposizioni dei tre Bruce), il giovane Spielberg fu costretto a utilizzare un approccio creativo: la macchina da presa divenne quindi la soggettiva del grande predatore marino.
Fu questa la scelta vincente che rese una sceneggiatura inverosimile (firmata inizialmente dall’autore del libro, Peter Benchley, e rifiutata per ben tre volte da Spielberg) il capolavoro della suspense che ancora oggi tiene lontani dalla spiaggia molti spettatori.
L’impatto sulla cultura popolare fu così devastante che lo stesso Benchley si rese conto di aver fatto un pessimo servizio agli squali (ad esempio nella cittadina di Martha’s Vineyard, set delle riprese, furono oggetto di una vergognosa caccia “ricreativa”). Divenne, come lui stesso si definì, l’avvocato degli oceani per riparare all’errore commesso con il suo bestseller e fino al 2006, data della sua morte, si impegnò nella salvaguardia di tutte le specie marine in pericolo. “Se avessi conosciuto allora la vera natura degli squali, — disse in un’intervista al National Geographic — non avrei scritto il libro”.
Da un altro libro, indubbiamente molto più famoso, fu tratta la pellicola più demenziale, illogica e follemente pop che sia mai stata girata a Hollywood. Un film che vide avvicendarsi ben cinque registi (tra cui John Huston e Robert Parrish) e un cast stellare tra cui Peter Sellers, David Niven, Ursula Andress, Orson Welles, Woody Allen, Jean-Paul Belmondo e Jacqueline Bisset con camei di Peter O’Toole e David Prowse (che interpreterà, nella trilogia di Star Wars, Dart Fener). Il film è James Bond 007 — Casino Royale ed è davvero un reale casino.
Nelle intenzioni dei produttori il film avrebbe dovuto essere molto più serio e decisamente “bondiano”, ma il successo mondiale delle prime due pellicole ufficiali e l’iniziale scarsità di fondi portò a un drastico cambio di rotta: Casino Royale sarebbe diventata la prima parodia ufficiale di 007.
Tralasciando la trama del film, praticamente senza alcun riferimento al libro (tranne il nome di alcuni personaggi e qualche scena), sul set vigeva l’anarchia più completa: all’inizio delle riprese Peter Sellers litigò con Orson Welles e pretese di non recitare in alcuna scena con lui (costringendo i registi a girarle tutte in controcampo). Poi, vittima dei suoi consueti sbalzi d’umore, Sellers si allontanò dal set per diverse settimane costringendo la produzione a riscrivere intere parti della sceneggiatura.
Quando uno dei registi del film e amico di Sellers, Joseph McGrath, si lamentò con lui del suo comportamento ricevette in cambio un pugno in pieno viso.
Lo stesso Woody Allen descrisse la partecipazione al film come un errore imperdonabile (nella sua autobiografia lo definisce “il più imbarazzante spreco di celluloide nella storia del cinema”) e raccontò che subito dopo il ciak finale corse così velocemente via dal set che solo a casa si accorse di vestire ancora gli abiti di scena. In più, tutti gli estrosi protagonisti si presero la libertà di aggiungere o togliere battute dai loro dialoghi anche durante le riprese, causando una serie interminabile di spezzoni privi di senso o continuità.
Gli aneddoti sugli errori e problemi di qualsiasi tipo su questa pellicola si sprecano, ma proprio mentre stavo rileggendo la vasta documentazione su questa “sconcertante faccenda disorganizzata” o “assurdo capolavoro psichedelico” come fu definito dalla critica, mi sono reso conto di quanto film come questo siano importanti.
Ovviamente nessun produttore assennato avrebbe mai scelto consapevolmente di imbarcarsi nella realizzazione di un progetto che, alla fine, arrivò a costare ben dodici milioni di dollari e che prima del ciak non aveva ancora un distributore, ma sebbene sia completamente folle, colorato, esagerato e kitsch è un film divertente e psichedelico, oltre che un perfetto esempio dell’estetica degli anni sessanta.
Nonostante il cast stellare e il budget spropositato, la critica lo stroncò senza particolari difficoltà, ma, come spesso accade, il pubblico premiò questa pellicola con uno dei migliori incassi dell’epoca (quarantuno milioni di dollari, più di tre volte l’investimento iniziale) che ebbe successo anche grazie alla colonna sonora di Burt Bacharach che fu arricchita dalla splendida The Look of Love eseguita da Dusty Springfield, forse tra i più memorabili brani legati alla saga bondiana.
Rimanendo in tema 007 nel 2005, per la quasi unanimità dei fan di Bond, con la scelta del nuovo agente doppio zero la Eon production aveva fatto il più grande errore nei quasi quarant’anni della saga. Per interpretare “Bond, James Bond”, infatti, era stato scelto un attore con un notevole passato teatrale ma pochi ruoli da protagonista, soprattutto sul grande schermo. Così Daniel Craig venne accolto da fan e critica come la scelta più sbagliata e “l’errore che avrebbe affondato il franchise”. E, cosa da non sottovalutare, era biondo, il primo 007 biondo (la stampa gli affibbiò il nomignolo di “Blond Bond”). Addirittura in un sito, danielcraigisnotbond.com, i fan più agguerriti lanciarono una petizione popolare per richiedere un nuovo casting.
Le riprese cominciarono quindi con premesse poco incoraggianti, ma un bravo regista (Martin Campbell), una sceneggiatura finalmente all’altezza, uno stuolo di attori italiani (Giancarlo Giannini, Claudio Santamaria e Caterina Murino) assieme alla star di Bertolucci Eva Green, un cattivo verosimile interpretato dal bravissimo Mads Mikkelsen e, finalmente, un attore all’altezza della fisicità del ruolo diedero al canonico “Casino Royale”, primo libro della saga di 007, la sua prima, credibile trasposizione cinematografica.
L’interpretazione eccezionalmente fisica ma sfaccettata di Daniel Craig rese di colpo inadatto ogni suo predecessore (tranne ovviamente Sir Sean Connery il quale non aveva comunque la preparazione fisica per interpretare le scene d’azione senza controfigura come Craig). Il film fu un successo incredibile, sia di critica ma soprattutto di pubblico, spazzando via tutti i dubbi iniziali e dando il via, oltre alla stratosferica carriera di Craig, al fortunato reboot della serie giunto alla conclusione con No time to die, uscito a fine settembre.
In realtà quasi mai i film nati per errore sono stati un successo o sono rimasti negli annali del cinema, anzi, la percentuale di errori fortunati è molto bassa, ma anche quando vedo un film che non mi convince, o che è vittima di grossolani errori di produzione o registici, si rafforza la mia convinzione che il cinema è alchimia, l’arte di mettere assieme un numero impressionante di professionisti, luoghi, set, musiche e immagini in un prodotto valido e appetibile per il pubblico, cercando di rimanere coerenti con la sceneggiatura e sperando di non inimicarsi la critica.
Per cui ben venga l’errore, insito in qualsiasi progetto umano, quando sprona a trovare una soluzione creativa, a usare il pensiero laterale, a sistemare con un colpo di genio una situazione che, come spesso accade nel cinema, potrebbe diventare catastrofica.
Di Alessio Petrolino
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