Libertà di odiare

Combattere le parole d’odio per non combattere l’odio dietro alle parole?

Mensa Italia
7 min readAug 2, 2020

Il Consiglio d’Europa definisce l’hate speech come “tutte le forme di espressione che diffondono, incitano, promuovono o giustificano odio razziale, xenofobia, antisemitismo o altre forme di odio basate sull’intolleranza, tra cui l’intolleranza espressa dal nazionalismo aggressivo ed etnocentrismo, discriminazione e ostilità contro le minoranze e i migranti”.

Nel 2003 i docenti di psicologia Jost, Glaser, Kruglanski e Sulloway (Università del Maryland e della California) hanno realizzato una meta-analisi sugli atteggiamenti politici, concludendo che le persone abbracciano atteggiamenti discriminatori e intolleranti per “ridurre la paura, l’ansia e l’incertezza; evitare cambiamenti; darsi spiegazioni; creare, ordinare e giustificare disuguaglianze tra gruppi e individui”.

Dobbiamo però chiederci se sia corretto concentrarsi sugli effetti anziché sulle cause dell’odio. Limitare l’espressione non aiuta a ridurre la paura, né a ripianare le disuguaglianze; nascondere i problemi sociali e culturali può invece rafforzare le convinzioni che sono alla base dell’odio.

La ricerca del comportamento scorretto ha un fine censorio piuttosto che educativo: Adrian Hart, un ex insegnante diventato produttore di film educativi antirazzisti per le scuole, nel suo libro The Myth of Racist Kids, sostiene che l’eccessiva vigilanza nei confronti dei bambini abbia un effetto controproducente. Questi infatti afferma che “politiche antirazziste possono creare divisioni dove non c’erano, trasformando gli spazi di gioco in problemi razziali”. Vietare una parola non significa rimuovere uno stereotipo, ma piuttosto rinforzarlo.

Christian Picciolini, un neonazista pentito, raccontando come fosse entrato e poi uscito dal movimento neonazista americano, parla di un sistema di reclutamento che punta sui giovani emarginati, vulnerabili, bullizzati e con scarsa autostima. In questi contesti, la repressione da parte delle forze dell’ordine aumenta il senso di appartenenza: una reazione censoria otterrebbe quindi l’effetto opposto, rafforzando le convinzioni e l’unità del gruppo censurato. Favorire il dibattito può invece indebolire le tesi estremiste e disinnescare potenziali comportamenti criminosi.

Christian prosegue infatti raccontando che il superamento dei suoi preconcetti è potuto avvenire solo con il confronto con le persone che prima disprezzava.

Come possiamo tracciare un confine tra libertà di parola da un lato e discorso criminale dall’altro? Sicuramente questo è il minimo indispensabile che dovremmo chiedere ai sostenitori delle leggi sull’hate speech, rimane però il fatto che è impossibile trovare chiare linee di demarcazione. Il concetto stesso di odio è soggettivo e percepito in modo diverso nel tempo e dalle varie culture. Un discorso di poche decine di anni fa sul tema del matrimonio o sulle metodologie di educazione dei figli potrebbe essere visto, nel contesto attuale, come discriminatorio o come incitamento alla violenza.

L’odio è un concetto modellabile a piacimento dall’autorità e questo lo rende un potente strumento di controllo. Le limitazioni sul diritto di parola attuate dai regimi dittatoriali sono spesso state giustificate criminalizzando i contenuti contrari all’ideologia di regime.

Negli anni ’50 e ’60, Martin Luther King fu ripetutamente attaccato dai suoi avversari per incitamento alla violenza, fu indagato dall’FBI e il Presidente americano Lyndon B. Johnson esternò forte preoccupazione per la marcia su Washington, temendo avrebbe portato a rivolte e violenze.

L’argomento più utilizzato per vietare l’hate speech, infatti, non è relativo alle offese dirette, ma all’aumento della violenza e della discriminazione nei confronti dei gruppi bersaglio. Esiste un problema filosofico per coloro che cercano di vietare i discorsi che diffondono l’odio. Se vogliamo vietare i discorsi d’odio sulla base del fatto che ispirano atti criminali, non dovremmo essere pronti a vietare qualsiasi espressione che potrebbe potenzialmente fare lo stesso?

Il concetto di incitamento all’atto criminale dà allo Stato il potere di punire le persone per danni che potrebbero derivare dall’espressione di idee. La catena di causalità rimane però del tutto speculativa. La differenza tra un atto di sollecitazione o cospirazione criminale, in cui è possibile identificare atti materiali che favoriscono la commissione di un crimine e l’incitamento riguarda il nesso di causalità che dovrebbe essere dimostrato prima di poter punire il colpevole. Il rischio è quello di limitare anche l’espressione che nasce con intenti diversi o addirittura opposti.

Il senatore anti-abolizionista di destra degli Stati Uniti, John C. Calhoun, durante la guerra di secessione, sosteneva che le critiche contro la schiavitù fossero diffamatorie e provocassero lesioni emotive agli abitanti del sud della nazione. Calhoun usò come esempio una petizione che dava dei pirati agli schiavisti, definendola fobia del sud: “Linguaggio strano! Pirateria e macelleria? Non dobbiamo permettere che quelli che rappresentiamo siano insultati in questo modo”. Fu questo il pretesto per l’approvazione di una legge che limitava il diritto costituzionale di presentare petizioni concernenti il tema della schiavitù.

L’hate speech è collegato agli interessi fondamentali che giustificano il diritto alla libertà di parola? Molti sostengono che il discorso politico rappresenti la categoria paradigmatica del discorso degno di protezione: nella misura in cui il discorso d’odio è politico, merita di essere protetto.

Alcune ricerche condotte negli scorsi anni dal Pew Research Center, un nonpartisan fact tank che si occupa di condurre sondaggi di opinione, ricerche demografiche, analisi dei contenuti e altre ricerche sulle scienze sociali, e da McLaughlin & Associates per il programma William F. Buckley Jr. a Yale, negli Stati Uniti e in Europa, suggeriscono che i più giovani siano i più disponibili ad accettare una limitazione della libertà di parola nel caso di contenuti offensivi per gruppi razziali.

La libertà di parola però è l’unico amico affidabile delle minoranze. Limitare i contenuti offensivi limita anche la discussione e la risposta a questi stessi contenuti, oltre a favorire la nascita di una cultura maggioritaria.

I giovani dovrebbero essere educati al ragionamento e al dibattito, senza limitazioni, e alla possibilità di esprimersi liberamente, soprattutto in ambito scolastico.

Il giornalista attivista Jonathan Rauch, in un articolo apparso sul New York Daily News, suggerisce ai college di inserire nei loro siti web questo trigger warning:

“ATTENZIONE. In questa università gli studenti potrebbero essere esposti, in qualsiasi momento, senza preavviso, a idee, commenti, letture o altri materiali che possono risultare scioccanti, offensivi, assurdi, fastidiosi, razzisti, sessisti, omofobi, discriminatori o, in generale, odiosi. Noi questa la chiamiamo educazione”.

Nella società contemporanea la tecnologia ha cambiato le modalità di ricerca e di condivisione dei contenuti, creando nuovi rischi legati al funzionamento intrinseco dei sistemi di ricerca delle informazioni.

I social network e i motori di ricerca sono progettati in modo da premiare i contenuti più vicini alle nostre idee: questo porta a risultati più gratificanti, ma innesca anche un processo di polarizzazione che amplifica le differenze. Per questo motivo sorgono sempre più dibattiti relativi a libertà di parola e censura sulle piattaforme tecnologiche.

Ci sono importanti studi su come l’odio diffuso tramite social network possa essere collegato ad attività criminali. Il professor Müller (Princeton University), nel suo studio Fanning the Flames of Hate: Social Media and Hate Crime, sostiene che i social media possono agire come un meccanismo di propagazione per crimini violenti, consentendo la diffusione di punti di vista estremi. Gli attacchi contro immigrati e altre minoranze sono in aumento e sollevano preoccupazione relativamente al rapporto tra hate speech e atti violenti.

Le stesse tecnologie che consentono agli attivisti di organizzarsi vengono utilizzate da gruppi di odio per attività di reclutamento e organizzazione. Christopher C. Yang e Tobun D. Ng (ricercatori presso le Università di Pechino e di Drexel), in un loro studio, indicano i Weblog come piattaforme di propaganda ideali per i gruppi terroristici, per promuovere da una parte le loro ideologie e organizzare reati dall’altra. La professoressa dell’Università di Harvard e North Carolina Zeynep Tufekci, tecno-sociologa nota principalmente per le sue ricerche sulle implicazioni sociali delle tecnologie emergenti, scrive che YouTube potrebbe essere uno dei più potenti strumenti di radicalizzazione del XXI secolo. Gli sforzi della piattaforma per ridurre i contenuti di odio si sono infatti dimostrati poco efficaci.

Il nostro impegno dovrebbe pertanto essere quello di aumentare gli spazi di discussione e di dibattito, soprattutto all’interno delle scuole.

Rispondere in maniera circostanziata e senza alzare il tono della discussione, in modo da ridurre l’effetto polarizzante di uno scontro diretto o di una censura. Purtroppo, il dibattito politico non aiuta e i leader dei vari partiti sono più concentrati sull’attacco dell’avversario che sulla ricerca di mediazioni per il bene del Paese. Questa tendenza non è solo italiana ed è legata anche alla struttura dei social network che si presentano sempre più come strumenti divisivi.

Anche l’ex Presidente degli Stati Uniti Barack Obama sostiene che la tecnologia anziché incoraggiare la “molteplicità delle voci e la diversità delle opinioni” per trovare un terreno comune, alimenta i pregiudizi esistenti. In alcuni casi questo viene fatto da strutture che utilizzano le debolezze dei social network per aumentare la divisione e ottenere un vantaggio politico. Dobbiamo quindi impegnarci per saperne di più su come le comunità dei social media influenzano il discorso politico e assicurarci che siano il più affidabili, disponibili e rappresentative possibile. È quindi importante creare spazi di confronto aperti, anche in ambito social, con prodotti appositamente progettati per favorire la connessione e la comprensione. Dovremmo anche promuovere nuovi approcci, come quello, per esempio, di Ceasefire, un social network nato con l’obiettivo di “aumentare il flusso di conoscenza e intuizione in tutto il mondo, riducendo al contempo la polarizzazione che lo sta rallentando. Quando le persone sono polarizzate, la lealtà tribale sostituisce l’empatia; vincere è più importante che arrivare alla verità”.

In generale, strategie di integrazione inclusiva efficaci sono in grado di prevenire discriminazione e odio, evidenziando il vantaggio della diversità, promuovendo il mescolamento e l’interazione tra persone di diversa estrazione, creando un senso di identità pluralistica, sostenendo la partecipazione e la condivisione del potere, rompendo gli stereotipi, rafforzando il senso di appartenenza a una comunità inclusiva e diversificata.

Noi tutti dovremmo impegnarci per spostare le nostre interazioni dalla competizione alla collaborazione, per disinnescare questi processi di polarizzazione.

Di Alberto Viotto

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