L’esperienza della Memoria

Non importa quanto ce l’hai lunga, ma come la sai usare.

Mensa Italia
7 min readDec 27, 2020

Il Partito diceva che l’Oceania non era mai stata alleata dell’Eurasia. Lui, Winston Smith, era certo che l’Oceania fosse alleata dell’Eurasia ancora quattro anni prima. Ma dove sta questa certezza? Solo nella sua coscienza, che in ogni caso presto sarebbe stata cancellata. E se tutti gli altri accettavano la menzogna che imponeva il Partito — se tutti i documenti scritti raccontavano la stessa storia -, allora la menzogna passava alla storia e diventava verità. “Chi controlla il passato” recitava lo slogan del Partito “controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato”.

(George Orwell, “1984”)

Questa citazione di Orwell sottolinea meglio di altre l’importanza della memoria, sia essa collettiva, di un evento storico che ha coinvolto una nazione, o personale, di un ricordo di famiglia. Senza memoria non saremmo in grado di dire chi siamo, perché non sapremmo niente del nostro passato. E se non sapessimo chi siamo, difficilmente potremmo stabilire chi vorremmo essere.

La nostra storia si basa sulle nostre memorie. Alcune le abbiamo costruite, altre ci sono state tramandate dai nostri avi, dai libri di storia, ma anche da una canzone, da una poesia, da un racconto, da una cartolina.

Una delle associazioni mentali più ricorrenti quando si pensa alla parola “memoria” è sicuramente legata al concetto di “archivio”: la memoria come un insieme organizzato di dati, di informazioni.

Quando diciamo che una certa persona rappresenta “la memoria storica” di un ufficio, intendiamo dire che costui (o costei) è a conoscenza di tutto quello che in quell’ufficio è accaduto nel corso degli anni, di come si chiamava quel vecchio collaboratore che ora è in pensione o di dove sono state archiviate certe pratiche. Potremmo dire, riguardo quest’ultimo aspetto, che quella persona rappresenta “la memoria della memoria”. E riflettendoci bene, è abbastanza buffo pensare che si spendano tempo e risorse a creare archivi e ad alimentarli senza talvolta sapere poi come consultarli e senza tramandare questa meta-conoscenza, indispensabile per accedere alla conoscenza vera e propria. Pensate in questo senso a come una sola tavola di pietra (la “stele di Rosetta”, che ha permesso l’interpretazione dei geroglifici egiziani) abbia rappresentato di fatto l’unica chiave d’accesso a un enorme bacino di memoria che altrimenti non saremmo stati in grado di consultare.

Scriviamo i nostri diari, le nostre “memorie” per ricordarci chi eravamo, cosa facevamo e cosa pensavamo quando le avevamo scritte, per tramandare qualcosa ai posteri affinché di quei pensieri, di quei ricordi e di quelle esperienze ne facciano “futura memoria”. Ma anche in questo caso, spesso, quei diari vengono messi in uno scatolone e finiscono in cantina per riemergere durante un trasloco o lo svuotamento di una casa, finendo nelle mani di chi, di quegli scritti, non sa cosa farsene.

Questi esempi sono sufficienti a farci riflettere su due questioni importanti che riguardano la memoria e che influenzano il nostro rapporto a livello individuale e collettivo con questo concetto tutt’altro che scontato.

La prima è che archiviare qualcosa rappresenta solo il primo passo per costruire una memoria.

Curiosamente, la civiltà moderna sta concentrando la propria attenzione su questo aspetto. Il processo di digitalizzazione di tutte le forme di espressione dell’essere umano ha alla base questo: costruire un archivio multimediale che possa essere facile da conservare, consultare, condividere e riprodurre (per quanto labile e vulnerabile) a vantaggio di una porzione sempre più ampia della popolazione mondiale. Megabyte di suoni, parole, immagini, numeri che negli anni sono diventati Gigabyte e che ora la società dei Big Data concepisce in termini di Petabyte (se non di Zettabyte). Archivi conservati all’interno di sterminate server farm che noi immaginiamo su di una nuvola ma che in realtà si trovano nel mezzo di un deserto da qualche parte in giro per il mondo: il sogno di una memoria che risuonerà intatta nei secoli a venire, come se fosse stata partorita qualche ora prima (salvo che alla prima tempesta magnetica di un certo rilievo tutto questo potrebbe dissolversi nel nulla e dovremmo tornare a consultare i vecchi papiri che avevamo scansionato anni addietro).

La server farm di Internet Archive (https://archive.org/) il più grande progetto mondiale no-profit legato alla costruzione di una memoria digitale.

Nel fare tutto ciò, nel costruire questa enorme massa di memoria (e non già una memoria di massa) ci stiamo però “dimenticando” di qualcosa. O forse sarebbe meglio dire che ci stiamo “scordando” di qualcosa. L’etimologia di questi due termini mette in evidenza come nel processo di costruzione (o, in questo caso, di distruzione) della memoria ci sia una componente legata alla “mente”, alla razionalità, alla tecnologia ed una al “cuore”.

Ed è qui che entra in gioco la seconda questione: fondamentalmente la memoria altro non è che un’esperienza, o, per meglio dire, il ricordo di un’esperienza. E più questo ricordo è vivido e fuori dagli schemi, più a lungo rimarrà nella nostra memoria e più a fondo condizionerà la nostra percezione del mondo e le nostre azioni.

Alcune delle più diffuse tecniche di memorizzazione veloce basano la propria efficacia sul coinvolgimento, in fase di memorizzazione di un’informazione, di tutti i cinque sensi. Quando leggiamo qualcosa, sfruttiamo principalmente una memoria di tipo visivo, che ha a che fare più con l’impaginazione del contenuto che con il contenuto stesso, e che non ci permette di ricordare un’informazione per periodi di tempo prolungati. Al contrario, se nel momento dello studio associamo al contenuto (attraverso l’immaginazione e la creatività) anche sensazioni di tipo olfattivo, gustativo uditivo e tattile, il nostro cervello costruirà una rete di significati tra tutti questi stimoli sensoriali, che saranno associati in maniera univoca al contenuto da memorizzare.

L’efficacia di tale procedimento (che si può attivare anche a livello inconscio) è direttamente proporzionale alla quantità e alla intensità degli stimoli associati. Ecco perché, per esempio, tutti ci ricordiamo perfettamente quello che stavamo facendo l’11 settembre 2001, ma al contrario non sapremmo dire cosa stavamo combinando magari 20 minuti fa.

La tecnica dei loci (plurale del termine latino locus, che significa “luogo”), anche chiamata “palazzo della memoria”, è una tecnica mnemonica introdotta in antichi trattati di retorica greci e romani (tra cui il “De Oratore” di Cicerone) ed è forse uno dei primi esempi codificati di “esperienza della memoria”. Per maggiori informazioni: https://it.wikipedia.org/wiki/Tecnica_dei_loci).

Per avere memoria di qualcosa dobbiamo dunque fare esperienza di quella memoria nel modo più completo possibile. Fino a qualche tempo fa i libri (che rappresentavano la fonte principale della nostra memoria) ci fornivano in pasto solo sequenze di numeri, lettere e illustrazioni. Al massimo avremmo potuto fare un giro in qualche museo o teatro per avere un ulteriore feedback visivo o uditivo, ma, mentre ad esempio la pittura ci avrebbe permesso di intravedere nei quadri di Pollock la veemenza con la quale il pittore si scagliava contro la tela anche a distanza di anni, la musica e il teatro (prima dell’avvento del disco e della pellicola) erano soggetti a rivisitazioni e reinterpretazioni che non fornivano la certezza che ciò che avevamo visto o ascoltato fosse la stessa vibrazione prodotta dall’artista nel periodo in cui aveva concepito ed eseguito la sua opera.

Oggi, invece, la tecnologia che stiamo sviluppando ci consente di avere accesso a memorie multimediali e dunque multisensoriali che cristallizzano le performance nel momento in cui esse vengono eseguite, ed esperienze immersive come la realtà virtuale che ci aiutano nel difficile compito di “fare memoria della memoria”.

Ad ogni modo, il passo decisivo verso la conservazione della memoria spetta a noi, alla nostra curiosità, alla nostra voglia di metterci in gioco e fare esperienze sempre nuove e diverse.

E a quanti hanno capito che per produrre memoria bisogna soprattutto agire e creare narrazioni coinvolgenti che facciano uso di tutte le forme di comunicazione esistenti: libri, film, fumetti, videogame, audiolibri, ma anche installazioni artistiche, progetti architettonici e tutto ciò che riesce a provocare (e cioè a portare verso di sé) i nostri sensi.

Un buon esempio di esperienza della memoria è in questo senso il memoriale dell’Olocausto di Berlino: un progetto architettonico integrato nella città e all’apparenza slegato dai consueti simboli del massacro nazista. Quello che da fuori sembra essere un enorme gioco del domino, nel momento in cui viene attraversato (e dunque sperimentato), diventa un labirinto di muri in cui il paesaggio urbano gradualmente scompare e all’improvviso si prova un senso di soffocamento e di smarrimento che aiuta a “ricordare” la follia dell’Olocausto più di tante liste di nomi di vittime. Va da sé che guardare un video di questa esperienza (per quanto educativo) non sortisce lo stesso effetto.

Ecco quindi che la memoria, che spesso vediamo come qualcosa di anacronistico (poiché legato al passato) e lontano da noi, diventa qualcosa di profondamente attuale e compenetrato nella vita di ciascuno. Diventa momento di ascolto attivo che coinvolge i nostri sensi e genera pensiero, azione e, a sua volta, nuova memoria da condividere.

Un rapporto consapevole e costruttivo con la memoria, nostra e degli altri, è la chiave per leggere il presente e cambiare il futuro. Ricordiamocelo.

Il memoriale dell’Olocausto di Berlino (per maggiori informazioni: http://bit.ly/BerlinMemorial)

Di Alessandro Mantini

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