Le basi biologiche del senso della vita

Origine ed evoluzione dell’inesistente finalismo esistenziale.

Mensa Italia
6 min readJul 12, 2021

Per capire quale sia il senso della vita bisogna prima definire che cosa sia la vita.

Le teorie scientifiche, descrittive e imparziali nella loro essenza, non possono dedurre quale sia il fine dell’esistenza, ma possono alludere all’idea che non sia davvero necessario fornire una risposta a questo interrogativo.

La vita è infatti l’insieme delle caratteristiche proprie degli esseri viventi, che manifestano processi biologici come l’omeostasi, il metabolismo, l’evoluzione e la riproduzione secondo reazioni biochimiche delineate in ben precisi compartimenti al loro interno — cellule, tessuti, apparati e sistemi — che richiedono un consumo di energia per realizzarsi.

Allo stesso modo, un organismo vivente smette di vivere quando questi processi vengono meno: la morte è la permanente cessazione di tutte le funzioni biologiche che sostengono un organismo vivente e insorge quando alcuni processi fisiologici vengono perturbati al punto da influenzare tutti quelli a cui sono collegati, fino ad arrivare a uno squilibrio e a un caos interni permanenti.

La fisica ha dimostrato che ogni fenomeno nell’universo tende spontaneamente al disordine: disordine molecolare da un lato, perché le molecole tendono a muoversi nel modo più caotico possibile, e disordine energetico dall’altro, perché l’energia tende a distribuirsi nell’ambiente circostante in modo da occuparlo tutto, come nel caso del calore che si diffonde in una camera.

Questo disordine, chiamato entropia, è spontaneo in natura, non richiede consumo di energia e occorre per raggiungere uno stato energetico più basso e più stabile.

In breve, la vita è una forma di ordine biochimico non spontaneo diretto da processi che consumano energia, mentre la morte è una situazione di disordine biochimico spontaneo che non rivendica alcuna spesa energetica.

Ma se la fisica dimostra che in natura tutti i processi tendono a creare disordine spontaneamente, allora com’è possibile che esista la vita, fatta invece di processi ordinati e non spontanei?

La risposta è che la vita esiste perché ci sono processi che permettono al suo ordine di realizzarsi e ai micro-disordini molecolari di assettarsi a micro e macro-ordini. E se la vita rappresenta l’ordine forzato e la morte il disordine spontaneo in un universo predisposto a processi spontanei, la vita non è altro che la via più lunga che la morte deve percorrere per compiersi.

Non che il senso della vita sia la morte stessa, ma per specificare quale sia bisogna prima comprendere come la vita sia nata.

Secondo i modelli attualmente accettati e secondo le modalità descritte dal classico esperimento di Miller-Urey (Chicago, 1953), la vita sulla Terra è comparsa tra 4,4 e 2,7 miliardi di anni fa.

Per realizzare questo esperimento Miller ricreò in laboratorio l’atmosfera che si pensava fosse presente sulla Terra primordiale (assai diversa da quella attuale), mettendo in una sfera acqua (elettricamente conducibile) e in un’altra molecole semplici come idrogeno (H2) e altri gas, quali metano (CH4) e ammoniaca (NH3). Le due sfere erano collegate tra loro con un sistema di tubi sigillati. L’acqua veniva riscaldata per indurre la formazione di vapore acqueo mentre due elettrodi venivano utilizzati per fornire scariche elettriche che simulavano fulmini. Il tutto veniva poi raffreddato cosicché l’acqua potesse condensare e ricadere nella prima sfera per ripetere il ciclo. Dopo circa una settimana ininterrotta in cui le condizioni furono mantenute costanti, Miller osservò che le molecole inorganiche si erano prima decomposte, poi assettate in molecole organiche semplici come amminoacidi e altri potenziali costituenti biologici.

Forti di queste considerazioni, Miller e Urey dimostrarono che scariche elettriche in presenza di acqua e di una mistura di gas, tra cui metano e ammoniaca, portavano alla formazione di diverse molecole organiche.

Sulla Terra primordiale le reazioni coinvolte poterono proseguire spontaneamente rendendo possibile un ulteriore sviluppo delle sostanze organiche fino a giungere, con un processo graduale di aumento di complessità durato milioni di anni, alle prime molecole di DNA e RNA, alla costituzione delle membrane fosfolipidiche, all’organizzazione degli organuli nelle cellule, ai primi microrganismi monocellulari, alla cooperazione delle cellule tra loro: si originarono così i diversi tessuti dei viventi, che si svilupparono in organi, apparati e sistemi, ognuno con la sua funzione da esplicare.

Questa teoria secondo cui la vita si origina a partire da materia non vivente, come semplici composti organici, è conosciuta come teoria dell’abiogenesi.

Il senso della vita è il suo perché finalistico, lo scopo per il quale essa è stata creata, il fine per il quale gli esseri viventi sono nati e continuano a vivere. E come il lettore ha potuto constatare, non esiste scientificamente, oggettivamente e incontestabilmente uno scopo per il quale la vita è stata creata: essa si è formata spontaneamente da interazioni intermolecolari, si è evoluta nei secoli secondo le leggi della scienza e continuerà a farlo secondo l’entropia.

Piuttosto è ognuno di noi, in base alle esperienze vissute, agli insegnamenti ricevuti, alle lezioni imparate e alla filosofia formulata, che tende a dare un senso alla vita: Stephen Hawking ha continuato a fare ricerca nonostante la malattia invalidante, basando la sua esistenza sulle sfide intellettuali, sulla realizzazione di se stesso; per Nietzsche invece, ad esempio, la vita non è mai adattamento, conservazione, bensì un continuo superamento di quei valori consolidatisi nel tempo che cercherebbero ipocritamente di normalizzare l’esistenza nella religione o nella morale, preferendo quindi una crescita senza la quale il vivente si spegnerebbe.

In sintesi, ogni prospettiva umanistica, filosofica o religiosa, fornisce una risposta diversa e relativistica all’enigma del finalismo esistenziale, mentre quello scientifico rimane il solo approccio a poter offrire una tesi supportata da prove oggettive e valide universalmente.

Ma è necessario sottolineare un punto: il senso della vita, se proprio una persona avesse l’esigenza di formularlo nonostante la sua oggettiva inesistenza, dovrebbe essere enunciato evitando di sfociare in risposte aprioristiche che denotano rigidità personale, della società o del credo, come spesso invece accade. Del resto è questo il pilastro fondamentale sul quale si ergono le teorie filosofiche e religiose sulle questioni etiche: nessuno conosce l’inopinabile e assoluta verità relativa a una data tematica etica, ma ognuno egocentricamente crede di averla.

Ci siamo evoluti attribuendo significati emotivi a ciò che incentiva la sopravvivenza, rivestendo di oro ciò che è utile e marchiando ciò che è deleterio: siamo tutti schiavi dei nostri pregiudizi e pretendiamo che gli altri ci comprendano.

A questi ultimi comportamenti deve essere contrapposta l’acquisizione di una soggettività flessibile, capace di aprirsi all’altro, che si interroghi sulle proprie emozioni per integrarle e migliorarsi in una completezza armonica. È una condotta nobile che spesso viene compresa e acquisita solo in condizione di sofferenza o in extremis, quando la vita è in bilico e si iniziano ad apprezzare le bellezze a lungo inosservate, date per scontate, come la vita stessa.

In fondo è il giorno della morte a dare alla vita il suo valore.

Di Antonio Sepe

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