La misura di un’emozione

Come valutiamo qualcosa che non riusciamo a definire?

Mensa Italia
5 min readMar 24, 2021

Descrivere cosa siano le emozioni non è semplice; ne esistono di fisiologiche, come le emozioni generate da risposte interne al corpo, di neurologiche, come le emozioni che nascono dall’attività cerebrale, e di cognitive, come le attività mentali e i pensieri che sono alla base della formazione delle emozioni.

In molti casi queste si mescolano tra loro, specie se appartengono allo stesso genere o alla stessa categoria; ma se le emozioni sono così difficili da definire, come possiamo pensare di misurarle?

Questa domanda se la sono posta in molti, a partire da Darwin, precursore nell’approccio scientifico alle emozioni, ma solo nel 1971 venne sviluppato il primo modello per la misurazione self-report degli stati d’umore: il Profile of Mood States (POMS). Nel 1999 fu sviluppata la Brunel Mood Scale per fornire una rapida valutazione degli stati d’animo tramite un questionario di 24 voci. Il sistema più utilizzato nelle scienze sociali è il PANAS (Positive and Negative Affect Schedule), un test composto da dieci aggettivi positivi e dieci negativi ai quali il soggetto deve associare un punteggio da 1 a 5, da “per niente” a “estremamente”, sulla base di quanto prova in quel momento.

In uno studio pubblicato nell’agosto 2020, tre ricercatori australiani, Peter C. Terry, Renée L. Parsons-Smith e Victoria R. Terry, utilizzano il sistema di misurazione Brunel per analizzare l’umore di 1.062 persone nel periodo delle restrizioni relative alla prima ondata Covid-19 (marzo-giugno 2020). I risultati, benché prevedibili, non sono confortanti: valori di tensione, stanchezza, rabbia e depressione sopra la media e valori di vigore inferiori alla media pre Covid-19. Donne e under 25 registrano i punteggi peggiori.

Quanto però queste misurazioni sono attendibili?

Tutte le modalità di misurazione basate sull’autosomministrazione di un questionario soffrono degli stessi limiti (si parte infatti dal presupposto che il soggetto sia consapevole dell’emozione provata e in grado di classificarla correttamente, senza censura), limiti che, però, diventano accettabili nel momento in cui il nostro intento è legato alla misurazione delle emozioni di un gruppo anziché di un singolo: più è ampio il gruppo, meno pesano le differenze di valutazione soggettiva.

Le differenze culturali, il lessico e la morale dell’ambiente circostante rappresentano un altro limite importante, che però può essere superato dalla lettura delle espressioni facciali.

Già Darwin e Duchenne, a metà dell’800, studiarono il rapporto tra espressioni facciali ed emozioni; solo in tempi recenti, però, si è cercato di costruire un modello che ne desse una lettura univoca. Nel 1955, lo psicologo Theodore Kunin ha elaborato una scala con una serie di volti che vanno dal più infelice al più felice (siamo ormai abituati a vederli nei questionari di soddisfazione degli utenti): questa semplificazione è molto veloce e comprensibile, ma non è in grado di valutare emozioni complesse.

Le misure di autovalutazione visiva hanno il vantaggio di superare i problemi culturali e di comprensione dei questionari, mantengono però i limiti legati al concetto stesso di autovalutazione, in particolare per quanto riguarda il tentativo, anche inconscio, di proiettare un’immagine di sé non corrispondente alla realtà.

Le emozioni, però, come abbiamo detto, comportano anche cambiamenti fisiologici. Misurare dati fisiologici, come pressione sanguigna, frequenza cardiaca, adrenalina, sudorazione, lacrimazione, dilatazione delle pupille, postura e tensione muscolare, permette di avere dei dati “oggettivi” anche se difficilmente riconducibili a un’emozione specifica (se aumenta la frequenza cardiaca, a cosa è dovuto?).

Le evoluzioni tecnologiche permettono oggi di utilizzare nuovi approcci per la misurazione delle emozioni: disponiamo infatti di software di riconoscimento facciale in grado di misurare centinaia di caratteristiche dell’espressione in tempo reale, superando così i limiti dei questionari autosomministrati e fornendo risultati oggettivi e meno mediati.

Le emozioni, oltre a essere provate a livello intimo e personale, sono influenzate dall’ambiente esterno e dalla nostra relazione con gli altri. Lo psicologo Bernard Rimé ritiene che quando si vivono emozioni condivise, si verifica una condizione di “allineamento”: diminuisce la distanza nei confronti degli altri a favore di apertura e inclusione.

Dopo gli attentati terroristici del 2015 a Parigi, l’analisi dell’attività di oltre 60.000 utenti di Twitter ha mostrato un aumento della solidarietà a lungo termine, con utenti che a distanza di mesi partecipavano ancora all’emozione collettiva. Lo stesso comportamento si era visto dopo gli attacchi dell’11 settembre a New York.

Le emozioni condivise non sono solo positive: l’esperienza comune amplifica anche le emozioni negative.

Cambiare l’atteggiamento a livello di gruppo dunque può permettere di ridurre l’odio verso gli esterni. In Israele, per esempio, l’utilizzo di seminari di rivalutazione focalizzati sulla capacità di cambiamento dei gruppi ha portato a variazioni nella percezione dei palestinesi che perduravano anche dopo 6 mesi.

Il sociologo politico Paolo Gerbaudo ha studiato come le emozioni collettive abbiano un impatto a livello di movimenti politici, concludendo che l’odio nei confronti di un nemico esterno porta a emozioni positive interne che rafforzano il senso di appartenenza al gruppo.

Le emozioni condivise a livello di gruppo sono quindi un sistema complesso che si basa sulle emozioni dei singoli ma che contemporaneamente le modificano. I social network hanno un forte impatto sulle emozioni condivise e sui gruppi: ci mettono in contatto con persone che la pensano come noi, favorendo l’amplificazione delle nostre emozioni.

Lo scrittore Dale Carnagie una volta disse: “Quando trattiamo con la gente, ricordiamo che non stiamo trattando con persone dotate di logica. Noi stiamo trattando con creature dotate di emozioni”.

Di Alberto Viotto

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