La formula della libertà

Libertà, uguaglianza, diversità e inclusione.

Mensa Italia
6 min readJul 31, 2020
Immagine tratta da Purl, corto animato della Pixar che affronta il tema dell’inclusione nel mondo del lavoro. Lo trovate qui.

La libertà non è star sopra un albero
Non è neanche il volo di un moscone
La libertà non è uno spazio libero
Libertà è partecipazione

Questa frase di Giorgio Gaber esprime un concetto semplice ma importantissimo: non c’è libertà se non c’è uguaglianza.

Cogliere un concetto effimero ed etereo (quasi gassoso, oserei dire) come quello dell’uguaglianza è un po’ come teorizzare la formula di un composto chimico scomponendolo in atomi e molecole. Nel nostro caso le molecole in questione si chiamano diversità e inclusione.

Il tema della diversità e dell’inclusione è un sottoinsieme di un tema più ampio e attualmente molto dibattuto: quello della sostenibilità. Più specificatamente, fa parte di quegli elementi che definiscono la sostenibilità sociale, che insieme alla sostenibilità ambientale ed economica è uno dei fattori necessari alla sopravvivenza della nostra specie nei prossimi secoli (i più pessimisti direbbero decenni).

Un’impresa, una nazione, un pianeta socialmente sostenibile è un luogo in cui, tirando le somme, gli abitanti sono liberi, e lo sono perché alla base c’è un processo di inclusione sociale che permette a ciascuno di esprimere la propria identità, le proprie azioni, le proprie idee, contribuendo così al progresso sociale.

Per quanto solo in periodi recenti si sia cominciato a discutere seriamente di sostenibilità, gran parte di questi concetti erano già incorporati da secoli nel nostro DNA culturale. Ne è una testimonianza recente la meravigliosa sintesi di uno degli articoli più noti della nostra Costituzione, l’articolo 3, che parlando di uguaglianza al secondo comma recita così:

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Una sintesi efficace della nostra formula dell’uguaglianza e un punto di partenza perfetto per progettare qualsiasi iniziativa di promozione della libertà. Ecco che allora, quando parliamo di non-discriminazione, di quote rosa, di parcheggi per diversamente abili, di sostegno alla povertà, di edilizia popolare, in una parola di tutti quegli strumenti politici volti a rimuovere le diseguaglianze, dobbiamo pensare che il fine ultimo di tutto questo è rendere gli individui liberi a beneficio di tutti. Tutti, inclusi noi. C’è infatti una trappola mentale alla base della diversità e dell’inclusione che ritroviamo anche quando parliamo di concetti affini come la cooperazione: l’idea che lo si faccia per pura filantropia, per il piacere di fare del bene agli altri senza per forza avere dei ritorni personali.

Dovremmo quindi, per una volta, essere un po’ più egoisti del solito e pensare che un sistema economico e sociale inclusivo e cooperativo sia la soluzione per ottenere, nel lungo termine, di più non solo per gli altri ma anche per noi stessi.

Nel lungo termine: ecco dove sta la fregatura! Ed ecco perché si fa fatica a comprendere un principio all’apparenza così elementare. Perché quello che facciamo ogni giorno, in estrema sostanza, è valutare ogni nostra azione come fosse un solo, unico gioco che ha effetti nell’immediato. E in base a come sono strutturati questi giochi (o perlomeno alla percezione che noi abbiamo della struttura) siamo portati a cooperare o meno.

Pensate alle tasse: non cooperare (ossia non pagare le tasse) è un gioco che nel breve termine porta a degli effetti sicuramente positivi per i singoli evasori. Alla lunga però, se tutti ripetono lo stesso gioco, ci si troverà a fare i conti con la mancanza dei servizi che dovrebbero essere finanziati da quegli introiti. Anche la scelta di inquinare ha alla base un gioco che incentiva a non cooperare nel breve termine, così come ce l’ha acquistare merci a basso prezzo prodotte in Paesi poveri con lo sfruttamento della manodopera locale. E in ciascuno di questi casi, le conseguenze che ci troveremo a dover pagare (e che in parte stiamo già pagando) a fine corsa saranno nefaste e difficilmente reversibili.

Non per niente, il protrarsi nel lungo termine di questa miopia decisionale ci sta portando verso ciò che l’ecologista americano Garrett Hardin ha

definito come “la tragedia dei beni comuni”, cioè l’estinzione di beni (come le risorse naturali, relazionali e sociali) che hanno la caratteristica di non avere un proprietario, ma su cui ognuno di noi ha la sua piccola fetta di responsabilità in termini di consumo e di rigenerazione.

Alcuni di questi beni comuni sono relegati a dimensioni locali (pensiamo per esempio a un parco o a un museo) e possono essere gestiti da una collettività locale facilmente individuabile come un Comune, una cooperativa o un’associazione, che può in qualche modo disciplinarne l’uso, sanzionando i comportamenti che li danneggiano. Ma la maggior parte di questi beni è globale e la loro gestione richiede uno sforzo che va ben al di là della volontà del singolo, di una comunità o di una nazione.

Ci troviamo dunque per la prima volta nella storia dell’umanità ad affrontare una situazione in cui agire per il bene comune non diventa più un’opzione e dove la buona condotta di pochi non può compensare la negligenza dei più: problemi globali che esigono risposte globali e che rappresentano il bivio tra il progresso e il declino.

La libertà in questo senso è il bene dei beni. Perché senza libertà (o meglio, senza diversità e senza inclusione) non c’è la possibilità di sviluppare nuove idee, di costruire ponti tra civiltà e culture, di instaurare quel dialogo globale che è alla base della gestione e della preservazione degli altri beni.

Ecco perché dovremmo fare nostra la celeberrima affermazione:

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo.

Difendere la libertà è dare a tutti la possibilità di partecipare, di formarsi un’opinione, di condividere le proprie idee superando la logica imprenditoriale dello share of market, share of voice. La libertà non è un detersivo e non sempre chi lava più bianco merita la nostra attenzione. Al contrario, si tratta di dare voce proprio a chi normalmente non ha voce, a chi è escluso dai processi di produzione e di consumo e a chi non partecipa alle dinamiche sociali che invece molti danno per scontate. È una questione di equità più che di uguaglianza, che richiede alla base una redistribuzione delle risorse e del potere per permetterne l’accesso.

Ed ecco quindi che la libertà smette di essere un bene del quale non se ne ha mai abbastanza e diventa invece (specie per noi) qualcosa di cui doversi privare (almeno in parte) per donarlo agli altri.

Ogni giorno, nel nostro quotidiano, abbiamo continuamente la possibilità di decidere se essere inclusivi o esclusivi, che si tratti di cedere il posto in autobus a un anziano o di permettere a qualcuno di intervenire in un dibattito anche se ha idee diverse dalle nostre.

Essere inclusivi significa vivere in un mondo di possibilità anziché di barriere e di divieti. Significa trasformare i “devo” in “posso”. Significa trovare ogni giorno attraverso il compromesso, il dialogo e l’innovazione nuove soluzioni agli stessi problemi. Significa ascoltare prima ancora di parlare. Significa guardare oltre il momento presente per cogliere i frutti del domani. Significa avere un’idea per un mondo migliore e provare a metterla in pratica nonostante tutto e nonostante tutti.

Uguaglianza vs Equità

La libertà insomma comincia prima di tutto dalle nostre teste. Escludere è un esercizio semplice e immediato, ma non sempre efficace. Per creare uomini liberi bisogna anzitutto liberare se stessi. La libertà è come una valanga che prima di scatenarsi deve accumulare energia nel suo percorso, è l’energia del sacrificio che facciamo ogni giorno per andare un po’ più in là rispetto a quello che siamo, è il cambiamento nella sua forma più radicale, è il segno di un’evoluzione che ci garantisce la sopravvivenza

Forse, in questo senso, ammettere di aver sbagliato rappresenta il primo grande passo verso la libertà. E ora che anche voi sapete qual è la formula della libertà, non avete più scuse.

Di Alessandro Mantini

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