La fine dell’infinito

Mensa Italia
3 min readFeb 22, 2022

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Da Leopardi a Battiato, attraversando Sandro Penna.

Scrittori e scrittrici del Novecento che hanno preso in considerazione il tema dell’infinito non hanno potuto fare a meno di confrontarsi con Leopardi: mentre lui “quello / infinito silenzio a questa voce / vo comparando” loro si sono trovati costretti a comparare la propria voce proprio con quella del romantico di Recanati. Leopardi ha segnato uno spartiacque ineludibile: esiste un infinito prima di Leopardi e un infinito dopo Leopardi.

Definire l’infinito significa delimitarlo, e questo accade in ogni campo, ma l’infinito non ha principio e non ha fine, non ha limiti imposti, è innumerevole, senza confini e quindi come fare? Sappiamo dire che cosa non è, ma siamo in difficoltà a definire che cos’è, ma per fortuna la poesia è il territorio della vaghezza, come è proprio Leopardi a insegnarci.

Dei numerosi esempi di infinito post-leopardiano che potrei fare, vorrei soffermarmi sulla produzione di un autore che si nutre di attimi, di istanti liberatori, uno scrittore per cui la vita è ricordarsi di un risveglio triste, ma ricordarsi la liberazione improvvisa è più dolce: Sandro Penna.
Apparentemente le sue poesie non c’entrano niente con il tempo, men che mai con l’infinito, e allora come la mettiamo con la seguente composizione, che fa parte dell’opera Il viaggiatore insonne, la sua ultima raccolta, del 1977?

Salivano lente le sere
e il mondo restava beato.
La giovinezza mia era lieve
lieve gioia imprevista di soldato.

Venne la guerra poi o, nella vita,
non salirono più lente le sere.
Polverosi i tramonti. Ed infinita
la noia fitta delle primavere.

Ecco apparire la parola infinito, e in una posizione forte: alla fine del penultimo verso della seconda strofa, che sembra, inoltre, qualificare una sorta di tedio leopardiano in contrapposizione allo stato di grazia descritto nella prima strofa.
Ad essere infinita è la noia, il fastidio di ogni anno che passa e che ci allontana sempre più dalla giovinezza (“e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni”). Qui il tempo c’è, ma “si stava meglio quando si stava peggio”, in attesa di un soldato imprevisto, nella gioia di un attimo sospeso: il tempo e le sue leggi, infatti, nella vita di Penna, non esistevano.
Penna, ci ricorda Natalia Ginzburg, ebbe per sé soltanto briciole di felicità, dei miseri avanzi che gli permettevano di ritrovare un senso per la propria vita, da un lato, e l’infinità dell’universo dall’altro.

Penna era costantemente alla ricerca di istanti felici, racchiusi da un’imperfezione senza fine in grado di nobilitarli in eterno, facendo nascere la sua poesia da questo grumo di lacrime e sangue, doloroso, misero e solitario. Felice. Secondo il critico Cesare Garboli, invece, la poesia di Penna, la più ricca di libido di tutto il Novecento, è un tramite efficace per guardare altrove, oltre la felicità, definendola un “classico della malattia”. Penna è cantore dell’omosessualità, ma capace, allo stesso tempo, di dare voce a ogni diversità e marginalità, ampliando l’orizzonte con sguardi infiniti.

Sempre citando Garboli che parla di Penna: «Se la nostra avidità di vita è infinita, quale richiamo può farci paura? Quale messaggio può sedurci più di quello che ci viene rivolto da un profeta di negatività?»
Un poetare trasparente, ma pur sempre senza tempo, fuori dal tempo finito, ma abitato dalla ricerca dell’amore, il quale, se proprio non può essere infinito, almeno illuda, almeno ne racchiuda la speranza nel momento in cui si svela, facendosi vedere negli interstizi di una realtà crudele.
Come cantavano Franco Battiato e Carmen Consoli nel 2008 in Tutto l’universo obbedisce all’amore: “ed è in certi sguardi che si intravede l’infinito”.
Un infinito non infinito, quello di Penna, inutile girarci intorno (anche perché, se ci si potesse girare attorno, non sarebbe più infinito). Dove trovarlo, allora, un infinito vero, puro, incontaminato nel nostro amato Novecento? Difficile rispondere, se non ipotizzando che, con Leopardi, probabilmente, l’infinito, infine, è finito.

Di Massimiliano Bertelli

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