Io, me e il mondo

Riflessioni di una persona in cammino.

Mensa Italia
6 min readJul 12, 2021

Mi sento una persona insoddisfatta, incompresa dalle persone a cui tengo di più, e questo mi rende infelice. Non era questo ciò che volevo.

Ho sempre saputo che non sarebbe stato tutto facile, ma pensavo che ormai, superati i quaranta, ce l’avrei fatta a diventare una persona felice. Felice davvero.

Dopotutto, quale altro senso può avere la vita, se non quello di essere, e sentirsi, felici e realizzati? Di saper guardare e assaporare il bello delle cose, emozionarsi, ridere, sentirsi sereni e in armonia? Ho sempre creduto che per essere felici fosse necessario condividere, amare e, soprattutto, essere amati, accettare e accogliere le diversità, sentirsi accolti e accettati per quello che si è. Eppure, sembra non essere così semplice come a dirsi.

C’è chi pensa e afferma di conoscermi molto bene e, a volte, ci ho persino creduto, lasciandomi condizionare dalle parole altrui. Ma come è possibile se faccio fatica io stesso a capire certe cose di me? Sì, certo, dall’esterno uno vede quello che l’altro mostra e da una visuale esterna spesso si vede meglio, cogliendo anche dettagli che altrimenti sarebbero difficili da individuare, ma la verità è che io sono io: sono quello che sento, non sempre quello che mostro. Anche perché non è sempre facile esprimersi, sentirsi liberi di farlo.

Dai, diciamolo! Chi di noi non ha una maschera? A chi non è mai capitato almeno una volta di nascondersi dietro l’immagine di sé, quella creata in anni e anni di relazioni con gli altri?

Già. Una maschera, o un guscio se vogliamo, che per molti forse non è facile togliere nemmeno quando si è da soli, perché fa paura guardarsi dentro, mettersi in discussione, affrontare le proprie debolezze, scoprirsi fragili. D’altronde nasciamo fragili — piccoli esseri delicati che hanno bisogno di cura e protezione — e, se il fato ci assiste, moriamo da anziani, ancora fragili, con la stessa necessità di essere protetti e accuditi.

Nasciamo fragili. Moriamo fragili.

E nel mezzo? Nel mezzo un lungo percorso di crescita, dove abbiamo la possibilità di esplorare e di affrontare il mondo, temprandoci alle sue difficoltà. In fondo, però, restiamo fragili e abbiamo costante bisogno di protezione. Lo afferma anche Bowlby, lo psicologo che ha elaborato la “teoria dell’attaccamento”: la ricerca di protezione è un istinto naturale, è insita dentro di noi. Per questo l’uomo si affida e si rifugia nelle divinità, per dare una risposta a ciò che non può spiegare altrimenti e per trovare un senso di protezione, di conforto. Ci affidiamo a qualcuno perché da soli è difficile trovare un significato e perché, in fondo, non siamo nati per stare soli.

Qualcuno un giorno mi suggerì di trovare ‘il mio equilibrio’: riflettere sui miei valori, mettere ‘me’ al centro, affinché il mio baricentro interiore non dipendesse dagli altri, ma solo dalle mie ‘consapevolezze’, dalla conoscenza e dalla coscienza delle mie caratteristiche e delle mie peculiarità.

Così ho intrapreso un percorso per nulla facile. Ho provato a togliermi quella maschera che indossavo, che mi proteggeva, che mi teneva al sicuro, che spesso mi permetteva di evitare situazioni scomode o che mi incutevano timore. Me la sono tolta e mi sono visto per quello che sono: un essere fragile, vulnerabile.

Ho lavorato molto per cercare quell’equilibrio con me stesso, con le mie attitudini, con il mio essere più profondo. Consapevole delle mie vulnerabilità, ho realizzato che tutto dipende da me, da come decido di affrontare le cose, dal mio atteggiamento. Sono l’artefice delle mie azioni, sono padrone del mio destino, sono responsabile di ogni mia scelta e decisione.

Nonostante questo, non ho ancora raggiunto una completezza: sento un vuoto, sono una persona sola, e non è quello che voglio.

In realtà non è del tutto corretto dire che sono solo — ho molta gente attorno a me — ma mi sento, solo. Solo perché incompreso, solo perché vedo attorno un mondo che sembra non capirmi. O forse sono io che non riesco a esprimermi totalmente? O sono gli altri che non percepiscono che l’insofferenza che faccio trasparire è causata da una mancanza di comprensione e dunque mi giudicano per quello che non sono, perché magari prendo da loro le distanze?

E in fondo chi non ha bisogno di sentirsi capito? E questa mancanza, che già mi genera sofferenza, mi fa sentire a volte ancora più vulnerabile.

Se ho imparato una cosa, in questi anni, è che bisogna mettere in dubbio le proprie idee, il proprio pensiero, le proprie convinzioni. Perché rimanere ancorati a qualcosa, sì, in generale dà sicurezza, ma proprio come una nave, che ancorata al fondo del mare non ha la libertà di riprendere e proseguire la sua rotta, così noi, che su quella nave galleggiamo, rimaniamo fermi e ci precludiamo il viaggio e la scoperta di nuovi orizzonti.

Mettere e mettersi in dubbio, provare a sollevare ogni tanto quell’ancora, spingersi oltre, perché spesso le cose sono ben diverse da come ci appaiono, da come le vediamo.

Certezze e convinzioni sono le basi su cui costruiamo la nostra vita. Se da un lato, senza comprensione dell’altro, possono portarci a scontri, separazioni, attriti, isolamento, e, infine, alla solitudine, dall’altro, se condivise all’interno di un gruppo, ci permettono di sentirci accettati e soddisfare così quel bisogno di appartenenza che tanto contraddistingue la natura umana.

Ma cosa succede quando si realizza che tali certezze non sono così assolute come credevamo? Come si fa a rialzarsi e rimettersi su un cammino virtuoso, senza sentirsi smarriti?

Sto imparando a vivere senza il bisogno di queste ancore. Sto imparando ad apprezzare quello che mi capita, quello che la vita mi offre, cercando anche di guidare gli eventi, per non essere in balia dell’incertezza. Fare per non essere sopraffatto! Consapevole che, salpata l’ancora, il mare è immenso e non facile da navigare, ma il timone è nelle mie mani.

Sto imparando ad affrontare gli eventi col giusto atteggiamento, quello di chi, senza certezze, se non delle proprie vulnerabilità, si apre al mondo, alla bellezza, alla vita, accettando anche chi non riesce a comprendermi.

Non è facile, non sono ancora esperto, lo ammetto! Com’è che si dice? “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare” o, come mi ripeteva una persona a me molto cara: “tra il sapere e il saper fare, c’è tanto da imparare”. E di imparare e di crescere non si smette mai!

D’altronde quale altro destino ci aspetta? Iniziamo a crescere dal primo istante in cui nasciamo, anzi, dal momento in cui veniamo concepiti, e la crescita è ciò che accomuna il nostro percorso come singoli individui e come genere umano, è un processo che accomuna ogni essere vivente su questo pianeta. Tutto ciò che cresce e cambia può ritenersi vivo. Solo ciò che è privo di vita, non cresce, non muta.

Dante, descrivendo Ulisse che spronava i suoi compagni a continuare il loro viaggio oltre le colonne d’Ercole, confine ultimo del mondo allora conosciuto, così scriveva: “Considerate la vostra semenza; fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”, perseguire il bene e arricchire la propria conoscenza.

Questo il mio cammino — di ricerca, di scoperta, di crescita — e lo seguirò fino a quando non raggiungerò la completa, piena, realizzazione di me.

Di Alberto Marchesan

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