Intelligenza uguale Infelicità?
Come pensano, sentono e vivono le persone molto più intelligenti della media.
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INTRODUZIONE
Vladimiro: Non capisco.
Estragone: Usa la tua intelligenza, no?
[Vladimiro usa la sua intelligenza]
Vladimiro [dopo una pausa]: Brancolo nel buio.
(Samuel Beckett, Aspettando Godot)
A molte persone non piace l’idea di misurare l’intelligenza. Se chiacchierando in compagnia provate a menzionare il Quoziente Intellettivo, facilmente vi verrà risposto che non misura niente di reale, che esistono molti tipi di intelligenze diverse, che i test misurano solo quanto si è bravi a risolvere quei test. Alcuni ritengono che chi vi è interessato abbia problemi di autostima, o debba essere un elitista; altri, seguendo un luogo comune citato persino dal presidente americano, si vantano di essere street-smart (aver letto pochi libri ma essere in grado di cavarsela nella vita) invece che book-smart (aver studiato molto ma essere incapaci di affrontare qualunque problema pratico). L’intelligenza è ancora un argomento controverso, non tanto per i problemi scientifici che pone — per quanto fatichiamo tuttora a darne una definizione esaustiva — ma soprattutto perché ha a che fare con profonde questioni politiche ed etiche riguardanti l’uguaglianza. Essa infatti, diversamente da altre qualità come il talento per gli sport o l’estroversione, viene più facilmente percepita come un giudizio di valore sulla persona in toto: ci piace pensare alla gente più stupida di noi, a volte anche deriderla alla televisione o sui social network, per sentirci migliori; e ci mette a disagio pensare alle persone più intelligenti, che invidiamo, e immaginiamo avere avuto una vita facile e godere di un successo immeritato perché semplicemente “nate geniali”.
Come spesso accade, tuttavia, il senso comune è contraddittorio. Capita così anche all’opposto di invidiare chi reputiamo meno sveglio o più ingenuo, perché con la maturazione dell’intelletto e il crescere delle conoscenze con l’età abbiamo sperimentato che aumentano anche preoccupazioni, responsabilità e impegnative domande esistenziali: in un celebre aforisma, Ernest Hemingway affermò che “la felicità tra le persone intelligenti è la cosa più rara che io conosca”.
La ragione ci appare così confusamente una sorta di arma a doppio taglio, di cui non riusciamo ad afferrare implicazioni e limiti. Essere più intelligenti è un vantaggio o una maledizione? Ma prima ancora, si può effettivamente sostenere in modo oggettivo che alcuni siano più intelligenti di altri?
MISURARE L’INTELLIGENZA
Se tutte le virtù fossero presenti in egual misura in ogni uomo,
nessuna di queste avrebbe valore.
(Thomas Hobbes, Il Leviatano)
L’intelligenza è definibile, in linea generale, come la capacità di affrontare e risolvere problemi sconosciuti, comprendere velocemente idee complesse e adattarsi all’ambiente in modo ottimale tramite il ragionamento. Sebbene i filosofi discutano delle facoltà intellettive degli uomini da secoli, per quel che ne sappiamo fino al 1800 a nessuno è venuto in mente di provare a misurare in modo scientifico l’intelligenza: una delle spiegazioni possibili è che si è dovuto attendere la diffusione dell’alfabetizzazione di massa e dell’educazione formale per poter notare grandi differenze tra gli studenti nell’apprendimento e nei risultati in materie ad alta difficoltà. I primi tentativi di test intellettivi, infatti, furono creati con l’obiettivo di identificare gli studenti che imparavano più lentamente, per poterli meglio aiutare nelle aree in cui erano deficitari; in seguito il loro uso venne allargato a scoprire e valorizzare gli studenti più eccellenti, e successivamente allo screening per valutare i candidati al servizio militare.
Da un punto di vista scientifico il passo più importante viene compiuto da Charles Spearman (1863–1945), che a differenza dei suoi predecessori intuisce che le diverse abilità cognitive misurate dai test — ragionamento, memoria, ampiezza del vocabolario, velocità di risoluzione dei problemi, abilità spaziali — non sono indipendenti l’una dall’altra, come al tempo pare ovvio credere; egli nota invece che controintuitivamente ogni studente tende a raggiungere valori simili anche in prove molto diverse tra loro, e dopo averlo verificato con strumenti statistici dà a questa correlazione il nome di “fattore generale dell’intelligenza” (g-factor). Questo fattore g di Spearman è oggi una dei costrutti meglio descritti e documentati nell’ambito della psicologia: è il valore che i moderni test del Quoziente Intellettivo cercano di misurare, è alla base del nostro modello teorico attuale di intelligenza (modello di Cattell-Horn-Carroll, che poi ne descrive vari sottogruppi), dipende per il 50% circa da fattori genetici, è quasi del tutto stabile durante l’arco della vita, ed è correlato a differenze misurabili nel cervello, in particolare alla quantità di materia grigia nei lobi frontali e parietali e al numero di connessioni inter- e intra-emisferiche. Negli studenti poi predice in modo piuttosto affidabile i risultati scolastici futuri (infatti anche i test standardizzati per l’ammissione ai college americani tentano di misurarlo) e negli adulti addirittura sembra correlare a un minor rischio di morte per qualunque causa. Le ricerche sull’intelligenza sono affascinanti e aiutano a comprendere meglio la struttura del nostro cervello, le malattie neurodegenerative, l’interazione tra mente e corpo, il modo in cui impariamo e facciamo nuove scoperte, al fine di progredire in ognuno di questi campi.
Nonostante la descrizione del g-factor e del QI appaia quindi piuttosto solida, negli anni sono state prodotte molte teorie alternative sulla natura dell’intelligenza: alcune hanno avuto anche un certo successo presso il grande pubblico, pur avendo consistenza scientifica scarsa o inesistente. È il caso della Teoria delle Intelligenze Multiple di Howard Gardner, che ha descritto in realtà diversi tratti di personalità e stili di apprendimento già noti e non ha mai prodotto alcuno studio che correlasse le sue ipotesi, tanto da dover ritrattare egli stesso le sue teorie; o anche dell’Intelligenza Emotiva resa celebre da Daniel Goleman, un costrutto che comprende varie abilità sociali e la capacità di comprendere e manipolare le proprie emozioni, certamente importante ma non direttamente legata alla performance in vari ambiti come il QI.
Gli attuali test del Quoziente Intellettivo attribuiscono punteggi a diversi gruppi di problemi, a partire dai quali viene poi calcolato un unico risultato complessivo. I punteggi finali del QI, che abbiamo visto essere strettamente correlati a g, come molte altre variabili biologiche sono presenti nella popolazione secondo una distribuzione a campana — detta normale o gaussiana — che si concentra attorno a un valore medio di 100: questo significa che statisticamente la maggior parte della popolazione, quasi il 70%, possiede un QI intorno ai 100 punti (tra 85 e 115, in scala Wechsler con deviazione standard 15); più i valori si allontanano dal 100, più diventano rari. Solo il 2% circa ottiene punteggi sotto il 70 e altrettanti sopra il 130: al di sotto dei 70 punti si farà diagnosi di disabilità intellettiva, mentre sopra i 130 punti si parla di persone ad Alto Potenziale Cognitivo — l’argomento del nostro articolo.
COME CHIAMARE LE PERSONE MOLTO INTELLIGENTI
Che cos’è un nome?
Ciò che noi chiamiamo rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome,
avrebbe pur sempre lo stesso dolce profumo.
(William Shakespeare, Romeo e Giulietta)
Nel mondo anglosassone, storicamente attento a cogliere e valorizzare le eccellenze individuali, esiste da almeno un secolo sulle persone ad alto quoziente intellettivo una florida letteratura scientifica (psicologica e pedagogica) che pone in risalto tutte le particolarità e le necessità di questa fascia di popolazione. Queste evidenze scientifiche faticano ad affermarsi in campo educativo in tutto il mondo, perché frenate dall’idea pienamente errata che abbia bisogno di aiuto solo chi è più lento ad imparare. Vedremo invece che questo 2% della popolazione presenta un modo completamente differente di pensare e apprendere, tanto da spingere alcuni autori a considerarli una vera e propria neurodiversità (termine più spesso riferito alla sindrome di Asperger) che necessita di percorsi scolastici personalizzati al pari dei disturbi dell’apprendimento.
Il linguaggio dà forma alla realtà, e la scelta delle parole che usiamo per indicare qualcosa riflette e plasma la nostra idea di esso. In letteratura esiste una pluralità di termini per riferirsi alle persone con alto quoziente intellettivo, ognuna coi suoi limiti: gifted, plusdotati o iperdotati, che non piacciono ad alcuni studiosi perché sembrano riferirsi a persone che hanno ricevuto qualcosa in più che le rende migliori degli altri, e non semplicemente diversi; intellettualmente precoci, utilizzabile solo coi bambini e comunque impreciso, poiché essi rimarranno differenti per tutta la vita; ad Alto Potenziale Cognitivo (APC) o semplicemente Alto Potenziale, che pone l’accento anch’esso sulla possibilità di uno sviluppo futuro, escludendo così gli adulti; geniali o talentuosi, termini presenti anche nell’uso comune, che si riferiscono però più specificamente all’eccellenza in un dominio specifico (matematica, musica, arte, sport). Il problema del nome è così sentito che alcuni educatori specializzati scelgono di darne una loro definizione personale, come zebre (Jean Siaud-Facchin) per sottolinearne l’unicità, ghepardi (Stephanie Tolan) per lo stile di apprendimento “a brevi scatti rapidissimi”, o high aptitude learners (Gail Post) per la loro insaziabile curiosità ed elevatissima capacità di apprendimento nelle aree di interesse. In questo articolo, da ora in poi, i vari termini saranno utilizzati indifferentemente.
M’ILLUMINO D’INTENSO
Avere capacità sopra la media
significa avere costantemente l’emozione a fior di labbra
e il pensiero ai confini dell’infinito.
(Jeanne Siaud-Facchin)
Ma cosa rende queste persone così particolari? Finora abbiamo parlato esclusivamente di Quoziente Intellettivo, perché per molti anni l’idea (o la speranza) era che semplicemente al crescere di questo valore aumentassero di pari passo i risultati accademici, la velocità e la profondità di pensiero, senza alcun lato negativo: un’idea allettante, perché sarebbe bastato somministrare test standardizzati a tutta la popolazione per trovare le menti più geniali e affidargli i ruoli chiave della società. Ancora oggi, per ragioni di semplicità, la diagnosi di plusdotazione nelle scuole e in molte associazioni è semplicemente legata al superamento della soglia dei 130 punti (o all’incirca l’equivalente in altre scale di misurazione) in uno dei tanti test. Il valore del QI invece è una misura semplicistica: non solo perché per i valori più alti i test diventano generalmente meno affidabili, ma soprattutto perché a partire da questa soglia emergono particolarità del tutto uniche, ancora in corso di studio, di cui non esiste un’unica definizione condivisa. Citerò tuttavia una di quelle che gode di più largo accordo, da cui emergono alcuni punti importanti:
La plusdotazione — o giftedness — consiste in uno ‘sviluppo asincrono’, in cui abilità cognitive molto avanzate e un’aumentata intensità emotiva si combinano per creare delle esperienze interiori e una consapevolezza del mondo esterno che sono qualitativamente differenti dalla norma. Questa dissincronia aumenta al crescere della capacità intellettiva. L’unicità dei gifted li rende particolarmente vulnerabili psicologicamente, e richiede modificazioni nell’approccio di genitori, insegnanti e terapeuti perché possano svilupparsi in modo ottimale.
(Columbus Group, 1991)
Questa definizione non mette in risalto risultati di eccellenza, né il potenziale di raggiungerli in futuro, ma si focalizza sullo sviluppo psicologico. Il punto più importante è la asincronia o dissincronia, cioè crescita non omogenea, che si manifesta sotto diversi aspetti: la prima differenza è tra la maturazione cognitiva e quella emotiva. Il bambino plusdotato è dotato di una velocità di pensiero astratto eccezionalmente elevata per la sua età, è più creativo, rispetto ai compagni fa domande molto più profonde e analitiche ed è in grado di risolvere problemi più complessi (anche se spesso mediante percorsi di pensiero non sequenziali ma arborescenti, cioè per associazioni di idee inconsce, per cui arriva alla soluzione ma non sempre è in grado di spiegare come). Ma cosa ancora più importante, presenta una sensibilità emotiva eccezionale, vive ogni emozione in modo amplificato e non può fare a meno di empatizzare con le persone intorno a lui; presenta un forte senso di giustizia e vive con grande frustrazione ingiustizie e prevaricazioni. Questi aspetti psicologici — insieme ad altre particolarità caratteriali come gli interessi bizzarri — lo pongono frequentemente in conflitto coi coetanei da cui non riesce a sentirsi capito, con le proprie emozioni da cui viene sopraffatto, con il resto del mondo di cui non capisce le contraddizioni e le convenzioni implicite: la maturazione intellettuale perciò procede molto più velocemente di quella relazionale ed emotiva, e questo divario non fa che ampliarsi, se l’ambiente in cui cresce non è attento a sostenerlo.
La seconda dissincronia è quella tra le diverse componenti cognitive. Spesso i plusdotati sono molto più dotati in una o più aree specifiche rispetto alle altre, e questo squilibrio aumenta di frequenza e ampiezza con l’aumentare del QI; tanto da essere oggi fondamentale da analizzare non solo per la diagnosi di plusdotazione, ma soprattutto per aiutare ogni gifted a comprendere e convivere con le sue particolarità. I test del QI attualmente più diffusi sono le scale Wechsler (WAIS per gli adulti, WISC per i bambini), che per calcolare il QI totale combinano punteggi diversi: un indice di comprensione verbale (ICV), un indice di ragionamento visuo-percettivo (IRP), un indice di memoria a breve termine (IML), e un indice di velocità di elaborazione (IVE); ci sono poi due punteggi composti, l’indice di abilità generale (IAG=ICV+IRP) e l’indice di competenza cognitiva (ICC=IML+IVE). Nei plusdotati è frequente un profilo disarmonico, con ICV e IAG spesso molto elevati, dal momento che questi indici esprimono l’intelligenza fluida ovvero il talento puro nel ragionamento; al contrario quasi sempre i valori più bassi si raggiungono per IVE e ICC, gli indici che risentono più dell’ansia dell’esame e del perfezionismo, con compiti che richiedono impegno e attenzione prolungata (i punti deboli dei gifted). Queste differenze tra gli indici possono essere così elevate — se superiori ai 38 punti — da rendere impossibile stimare un QI complessivo; in ogni caso, all’aumentare della discrepanza aumenta la prevalenza di profili neurodiversi (ADHD, DSA, Asperger) che dovranno poi essere indagati in profondità con ulteriori strumenti neuropsicologici, insieme alle capacità che potranno essere anch’esse concentrate in domini specifici.
I plusdotati presentano quindi: un’intelligenza superiore o molto superiore alla norma; un marcato squilibrio tra la maturazione cognitiva e quella emotiva, a favore della prima; alcune capacità molto superiori ai pari età in uno degli ambiti accademici; una forte motivazione ad apprendere, che spesso è limitata a un ambito specifico che può cambiare appena raggiunto un grado di comprensione soddisfacente; possono poi essere presenti particolare creatività o spiccate capacità di leadership. Secondo alcuni studiosi (Siaud-Facchin) le loro caratteristiche possono essere spiegate mediante una eccezionale attivazione delle funzioni tradizionalmente associate all’emisfero destro: il loro cervello è perennemente iperattivato ma lavora per intuizioni e associazioni mentali inconsce difficili da controllare, processando creativamente in contemporanea un grandissimo numero di dati, e attribuendo ad ogni situazione una grande carica emotiva; per questo facilmente perdono il controllo dei loro pensieri, specialmente se messi di fronte a domande aperte, e non a test chiusi che possono risolvere di slancio utilizzando tutte le loro risorse. Riescono facilmente a risolvere problemi complicati o a trovarne soluzioni nuove, ma molte volte faticano a ripercorrerne in modo sequenziale i passaggi logici, perché la soluzione gli appare in modo intuitivo e devono ripercorrere la strada a ritroso. Anche le percezioni emotive ed empatiche sono violente, spesso soverchianti; a volte sono presenti anche manifestazioni sinestetiche (contaminazioni tra i diversi sensi, come immaginare sempre i numeri a colori o sentire il sapore della musica) dovute all’elevato numero di connessioni nervose. Fattori importanti da ricordare sono che tra i plusdotati esiste un’estrema eterogeneità di manifestazioni e gradi di adattamento, che quindi devono sempre essere analizzati caso per caso, e che al crescere del QI statisticamente si estremizzano le differenze con il resto della popolazione.
In campo educativo e psicologico esistono una molteplicità di approcci teorici alla plusdotazione, su cui non ci dilungheremo; sono considerate oggi del tutto senza fondamento le vecchie interpretazioni psicoanalitiche/psicodinamiche, che interpretavano la precocità intellettuale come una difesa nevrotica da ferite narcisistiche e familiari. Citiamo solamente le teorie più importanti: i modelli di Renzulli e Monks che la interpretano come intersezione tra abilità sopra la media, creatività e dedizione a un compito specifico; il modello bio-psico-sociale di Heller che analizza le varie interazioni ambientali per arrivare dal talento innato alle elevate performance; la teoria della Disintegrazione Positiva di Dabrowski, secondo cui i ragazzi dotati possono svilupparsi solo al prezzo di ripetute crisi e ristrutturazioni della personalità; la teoria della Zona Prossimale di Sviluppo di Vygotskij, che definisce il potenziale intellettivo che può essere raggiunto con l’aiuto degli altri; varie altre teorizzazioni che misurano invece la plusdotazione in base al potenziale di raggiungere l’eccellenza in un dominio specifico (o, con l’età, in base al grado di eminenza effettivamente conquistata nel loro campo lavorativo).
A SCUOLA: BAMBINI DIFFICILI
C’è qualcosa di molto più prezioso, raffinato e raro del talento.
È il Talento di riconoscere le persone di talento.
(Elbert Green Hubbard)I bambini precoci non sono esattamente come gli altri, ma come gli altri sono bambini.
(Olivier Revol)
Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, il bambino ad Alto Potenziale a scuola non è sempre uno studente modello, socievole, con buone competenze linguistiche e di studio: questo profilo corrisponde più spesso a bambini ben adattati con quoziente intellettivo medio-alto, tra 100 e 125. Il bambino APC al contrario (nella fascia 130–160 di QI) è spesso uno studente difficile con problemi di integrazione. Le sue caratteristiche lo rendono uno studente discontinuo, dai risultati altalenanti: raggiunge alcuni risultati con facilità e si appassiona voracemente ad alcuni argomenti, ma non riesce a trovare un metodo di studio, e ha una bassissima tolleranza verso i compiti noiosi o che reputa inutili. A casa è un bambino precoce, che a volte impara a leggere da solo, e dotato di una grandissima curiosità che presto si sposta su questioni esistenziali o metafisiche. In classe solitamente non è stimolato dagli argomenti troppo facili, si distrae facilmente e perde il controllo dei pensieri; oppure non riesce a contenere la frustrazione e l’energia, e diventa irrequieto e ingestibile (più frequentemente i maschi, mentre le femmine tendono più facilmente a nascondersi e a negare i loro talenti). Ha uno spiccato umorismo e personalità, un grande senso morale e razionale che lo porta sovente a mettere in discussione l’autorità, e tuttavia fatica quasi sempre a creare legami coi compagni che ne percepiscono la diversità — e in cui anch’egli non si riconosce — venendo sistematicamente escluso. Questo bambino ipersensibile è così cronicamente sottoposto a situazioni di stress; cerca di nascondere le sue capacità per farsi accettare dai compagni, ma non riuscendo a percepirsi come uno di loro non può sentirsi bene con se stesso, e nemmeno riesce a mettere a frutto le sue elevate capacità.
Spesso poi dopo le scuole elementari il metodo di studio dello studente plusdotato non è più sufficiente, così entro le scuole superiori entra in crisi, non aiutato dalle difficoltà sociali e dai cambiamenti dell’adolescenza; pur essendo consapevoli del loro talento moltissimi ragazzi APC abbandonano precocemente gli studi alle superiori e all’università, perché non riescono ad adattarsi ai metodi di apprendimento di una scuola che non è pensata per loro. Imparando in modo intensivo e intensissimo su pochi argomenti, infatti, hanno bisogno di motivazioni continue, di complessità e approfondimenti, di imparare a sistematizzare pur assecondando i propri ritmi di apprendimento, differenti dal resto della classe: ma nel percorso scolastico difficilmente trovano insegnanti che li aiutano a trovare questi equilibri, perché essendo evidente il loro talento vengono lasciati a loro stessi e bollati come pigri, mentre il tempo in classe viene speso per aiutare chi è più in difficoltà livellando ancor più verso il basso l’apprendimento.
Un problema aggiuntivo durante la scuola è poi quello delle mis-diagnosi: la scarsa conoscenza delle caratteristiche della plusdotazione fa sì che a volte le sue caratteristiche non solo non siano riconosciute, ma siano anche scambiate per disturbi. La distrazione in classe, la velocità di pensiero, la bassa tolleranza ai compiti ripetitivi, l’eccitazione motoria e la discussione dell’autorità vengono così confuse con l’ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività) o con il Disturbo Oppositivo-Provocatorio; le esplosioni emotive e lo stress cronico possono essere diagnosticati come un disturbo dell’umore (depressione maggiore, disturbo bipolare) specialmente in adolescenza; le difficoltà di socializzazione, il perfezionismo, l’amore per le regole e la giustizia, e la fissazione su alcuni argomenti sono manifestazioni simili al Disturbo Ossessivo-Compulsivo e alla sindrome di Asperger, che fa parte dello spettro autistico. Un caso particolare è poi quello della doppia diagnosi, ovvero della presenza contemporanea di plusdotazione e di uno dei disturbi già nominati oppure di un disturbo dell’apprendimento (dislessia, disgrafia, discalculia ecc): in questo caso spesso il Quoziente Intellettivo elevato maschera le difficoltà e rende la diagnosi più difficile e tardiva; questi alunni con un divario enorme tra talenti e aree di debolezza sono talvolta chiamati double-exceptional o 2E, cioè due volte eccezionali.
Il riconoscimento della plusdotazione è molto vario nel mondo, così come variabile è la presenza di leggi che la tutelino e di educatori e psicologi formati in materia. Nella scuola del nostro Paese esiste una lunga tradizione di inclusività e di integrazione degli alunni con disabilità, che però non ha aiutato la valorizzazione degli alunni più dotati in difficoltà. L’iter normativo italiano ha inquadrato e progressivamente regolamentato (legge 517/1997 e legge quadro 104/1992) l’integrazione e inclusione degli alunni con disabilità; con la legge 270/2010 ha riconosciuto il diritto alla personalizzazione agli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento; e con la Direttiva del 27/12/2012 e la successiva circolare del 06/03/2013 ha istituito la macro-categoria dei BES, Bisogni Educativi Speciali, in cui l’obiettivo è includere nella didattica ordinaria ogni necessità educativa degli alunni (difficoltà fisiche, psicologiche, linguistiche, socio-economiche e comportamentali). Purtroppo, benché esista dal 1994 una raccomandazione del Consiglio d’Europa (n.1248) che sottolinea la necessità di sviluppare il potenziale intellettivo dei bambini talentuosi attraverso strumenti e condizioni di insegnamento particolari, nei fatti la plusdotazione è stata quasi sempre esclusa dalla programmazione scolastica, perché i problemi che pone vengono sottovalutati e per il grande impegno che comporterebbe una didattica personalizzata e a livelli graduati di difficoltà concettuale. Dopo vari progetti di legge abbandonati in Parlamento e promesse disattese dei governi, un primo passo concreto è stato recentemente mosso dal MIUR con la nota n. 562 del 03/04/2019, in cui fornisce chiarimenti sugli alunni con Bisogni Educativi Speciali e invita a considerare tra di essi anche quelli ad alto potenziale intellettivo. È necessario aumentare la formazione degli insegnanti e diversificare le strategie di insegnamento: mappe concettuali, gruppi di approfondimento, gestione delle emozioni e della frustrazione, tecniche specifiche per insegnare a sistematizzare le conoscenze. Le sperimentazioni sembrano mostrare che la divisione della classe in gruppi di lavoro a diverso grado di difficoltà e approfondimento non solo è ben tollerata da bambini e ragazzi, che si rendono conto delle loro diverse capacità, ma porta beneficio a tutta la classe: aiuta a confrontarsi tra pari, premia un bambino che si impegna allo stesso modo di un bambino dotato, ed è utile sia per chi ha difficoltà sia per chi apprende rapidamente e rischia di annoiarsi.
ADULTI E LAVORO: UNA PROSPETTIVA ALTERNATIVA
In fondo, la felicità non è altro che sfruttare le proprie capacità al cento per cento.
(Mihály Csíkszentmihályi)
Cosa succede quando questi ragazzi diventano adulti? Sono purtroppo ancora scarsi gli studi disponibili sugli adulti plusdotati, sulle difficoltà lavorative che incontrano e sulle diverse strategie che adottano con la crescita per adattarsi al mondo. Moltissime ricerche mettono in relazione il QI col successo lavorativo — l’intelligenza è la singola caratteristica misurabile che meglio predice i risultati scolastici e lavorativi nella vita, assieme alla Coscienziosità, un indice di personalità che misura l’attitudine alla disciplina e al duro lavoro secondo il modello dei Big Five — tuttavia quasi nessuno studio esplora i QI>130 o ancora più alti, per la loro particolarità e rarità nella popolazione (un QI di 160 è presente in media in una persona ogni 12.000). In linea generale al crescere dell’intelligenza crescono statisticamente gli obiettivi di carriera raggiunti e lo stipendio medio (anche senza considerare lo status socio-economico di nascita), così come lo stato di salute, ma non è chiaro quanto questa correlazione si estenda ai plusdotati. Sul piano affettivo, invece, da alcuni studi pare emergere che gli adulti gifted abbiano maggiori difficoltà nei rapporti sociali e nelle relazioni, maggior tendenza al ritiro sociale, maggior incidenza di disturbi d’ansia/depressivi. Queste ricerche però soffrono di due principali punti deboli: il primo è che non distinguono se siano caratteristiche proprie dei gifted, o se siano una conseguenza delle citate difficoltà e isolamento che molti incontrano durante la crescita; il secondo è che per raccogliere i dati solitamente i ricercatori reclutano volontari nelle società per persone ad alto quoziente intellettivo come il Mensa: queste associazioni (pur svolgendo un importantissimo compito nel mettere in contatto persone che spesso per la prima volta nella vita si sentono comprese nella loro particolarità) non sono un campione rappresentativo della popolazione plusdotata, perché raccolgono con più frequenza chi percepisce il proprio talento come inespresso e non è riuscito a mettere il proprio potenziale al servizio del successo personale e lavorativo. In aggiunta, varie ricerche sembrano indicare che la leadership percepita sul lavoro e la desiderabilità sentimentale aumentano in modo lineare fino a un QI di circa 120, per poi tornare a decrescere: questi dati sarebbero in accordo ad alcune teorie non dimostrate (Hollingworth, Towers) che indicano che una comprensione e accettazione profonda sono possibili solo entro un range di 30 punti di QI al di sopra o sotto del proprio, relegando i valori lontani dal 100 a una difficoltà maggiore ad essere compresi e valorizzati.
Se non supera le sue difficoltà, l’adulto gifted quindi non rappresenta certo il collega ideale: discontinuo nello studio e nel lavoro, eccessivamente razionale, immaturo nella gestione delle proprie emozioni, con interessi eccentrici, tendente a rifiutare l’ottimismo esasperato e a evidenziare criticità; eppure spesso tra i migliori senza troppo sforzo quando riesce a trovare sufficiente motivazione. Anche quando raggiunge soddisfacenti obiettivi di carriera, la maggior percezione dei limiti della sua conoscenza lo predispone a sottovalutare le sue qualità (Effetto Dunning-Kruger, Sindrome dell’impostore) esasperandone il perfezionismo e lo stress emotivo.
Ma c’è un’altra prospettiva possibile: se un’elevata intelligenza crea numerose difficoltà all’individuo singolo, non è detto che non possa portare benefici alla società. Una meta-analisi (Veenhoven 2012) ha analizzato il rapporto tra Quoziente Intellettivo e felicità in numerosi studi precedenti: a un livello individuale non ha trovato alcuna correlazione, né positiva né negativa, ma a livello collettivo al crescere dell’intelligenza media cresceva anche la felicità percepita in 143 diverse società; l’intelligenza di tutti, evidentemente, paga più dell’intelligenza del singolo.
In un’altra interessantissima ricerca (O’Boyle e Aguinis 2012) è stato condotto un esteso studio nell’ambito delle risorse umane, analizzando le performance di più di 600.000 adulti lavoratori in vari ambiti diversi, senza però compiti ripetitivi o meccanici in cui non fosse possibile mostrare le proprie vere capacità. Era convinzione diffusa che i risultati raggiunti sul posto di lavoro si sarebbero concentrati attorno a una media, per poi poco alla volta aumentare o diminuire, assumendo anch’essi la forma di una gaussiana: la misura della performance lavorativa è spesso studiata come misura di quanto il talento potenziale sia stato messo in atto nella propria vita, assumendo che entrambi abbiano una distribuzione gaussiana simile nella società e nei vari luoghi di lavoro. I risultati della ricerca sono stati sorprendenti: nel 93,94% dei casi, i risultati sul posto di lavoro erano distribuiti e meglio descritti secondo un criterio del tutto diverso, il principio di Pareto. La legge o principio di Pareto è un risultato di natura statistico-empirica, nato nell’ambito dell’economia ma che si applica a molti sistemi complessi, chiamato anche “legge dell’80/20”: esso afferma che in un certo ambito all’incirca l’80% degli effetti è spiegato dal 20% delle cause, e viceversa l’80% delle cause spiega solo il 20% degli effetti. Questo tradotto nello studio significa che prendendo in considerazione il risultato medio in qualsiasi ambito lavorativo, sui grandi numeri l’80% dei lavoratori è sotto la media, e il 20% dei lavoratori migliori contribuisce per l’80% al risultato totale; e questo sia che si tratti del campo dell’industria, sia della ricerca, della politica o dello sport. Le implicazioni sono ovvie: la nostra società è plasmata e trainata da una minoranza di individui, che siano essi i più talentuosi o i più laboriosi o (più probabilmente) una combinazione di entrambi; imparare a prendercene cura, aumentarne il numero e metterli in condizione di lavorare il più serenamente possibile per esprimere interamente il loro potenziale non può che avere un effetto dirompente sul progresso umano ad ogni livello. Ma questo progresso non può prescindere da una migliore comprensione del talento.
CONCLUSIONE: ESSERE DIVERSI
Strani rapporti. L’estremo pensiero e l’estrema sofferenza aprono forse il medesimo orizzonte?
Forse soffrire è, in definitiva, pensare?
(Maurice Blanchot)
“Sii te stesso! Sii creativo, pensa fuori degli schemi! Be different!”
Slogan come questi sono onnipresenti nel mondo del lavoro, nelle pubblicità e nei programmi televisivi, nei libri di business o di psicologia: il messaggio ripetuto fino allo sfinimento è quello secondo cui essere unici è sempre una condizione positiva e necessaria per raggiungere il successo, che è accessibile a tutti a patto di impegnarsi a sufficienza. Molti plusdotati, come altre minoranze di ogni tipo, toccano con mano la falsità di queste asserzioni. Noi umani siamo fondamentalmente esseri sociali, e i gruppi sono tenuti assieme soprattutto da dinamiche di riconoscimento e somiglianza; essere troppo differenti è generalmente uno svantaggio, e chi è diverso viene istintivamente percepito come un rischio per la coesione del gruppo sociale, se non una minaccia vera e propria. Anche il “successo”, “la realizzazione” e “il proprio vero potenziale” sono nozioni elusive, venendo raggiunti in realtà quando le persone intorno a noi pensano che li abbiamo raggiunti: mete e traguardi decisi irrazionalmente, frutto di convinzioni sociali, ma essenziali da considerare per soddisfare il nostro bisogno fondamentale di accettazione da parte degli altri. Alla ricerca di questa accettazione e di un’identità, gli individui estremamente dotati cercano a volte di negare le loro peculiarità — un approccio purtroppo destinato al fallimento — e di raggiungere il successo in professioni che siano socialmente ben considerate — un’idea pericolosa sia perché la motivazione in ciò che fanno è una risorsa fondamentale per la loro mente, sia perché per fare carriera in quasi tutti gli ambiti sono fondamentali le relazioni sociali, e come abbiamo visto i plusdotati oltre ad essere differenti sono poco favoriti in campo relazionale dai loro tratti di personalità.
Come vivere allora una vita soddisfacente e felice? Per questi individui è fondamentale intraprendere un percorso alla scoperta della propria identità e delle proprie particolarità, così come dei propri limiti. La gestione delle emozioni è importantissima, e lo è altrettanto la paziente acquisizione delle abilità sociali che la maggior parte degli altri individui introietta istintivamente; gli specialisti e le associazioni aiutano a sentirsi compresi ed accettati. Una volta canalizzate le loro energie, il talento di questi individui può esprimersi in numerose forme: capacità di risolvere problematiche complesse in campi diversissimi, pensiero divergente, istintiva sensibilità alle emozioni altrui, inesauribile creatività e forme artistiche innovative, grande cultura, lucide critiche alla società. Il percorso realizzativo personale poi è differente per ognuno, e va compreso a partire dal discernimento di ciò che rende profondamente felici: alcuni gifted si votano anima e corpo a una disciplina, dando spesso straordinari contributi (scientifici, artistici, economici); un quota sorprendente di persone dal QI elevatissimo, invece, dopo un lungo percorso personale sceglie di occuparsi di lavori manuali o molto ordinari — o semplicemente di rinunciare a opportunità di carriera — per dedicarsi ai propri interessi ed affetti.
Qualche anno fa, un giornalista intervistò per un articolo due tra i membri Mensa più intelligenti della Svezia e della Norvegia; dopo averli conosciuti, non riuscì a capacitarsi del fatto che uno facesse il panettiere e l’altro vendesse autoradio in due piccole comunità rurali. Gli era inconcepibile che due individui così dotati sprecassero il loro talento, quando avrebbero potuto dedicarsi ai problemi della fisica o a scoprire cure per il cancro; tuttavia, interrogati in proposito, entrambi gli diedero sorridendo la stessa disarmante risposta: «Ciò che faccio ora mi rende felice».
Vivere una vita “diversa” è certamente possibile. La società cercherà sempre di misurare la vita di chiunque secondo le sue regole: scendere a patti con essa è necessario per la vita sociale, ma non per quanto riguarda la misura della propria soddisfazione e successo personali.
L’intelligenza è solo una delle tante caratteristiche umane, variamente distribuita nel mondo, che in nessun modo definisce il valore di una persona; e i gifted non costituiscono che un altro punto di vista sul mondo: può essere una grande ricchezza, ma solo se abbiamo imparato ad imparare da chi è differente.
Concludiamo l’articolo con una poesia di Kazimierz Dabrowski (1902–1980), psichiatra e psicologo polacco, originale studioso di giovani gifted. Egli definì col termine psiconevrotici gli individui ad alto potenziale, che nella sua visione attraversano spesso intense crisi psicologiche, ma solamente per arrivare ad esprimere i loro talenti ricostruendo la propria personalità secondo la loro vera natura.
Che possa essere un augurio per quanti di loro stanno leggendo.
Siate i benvenuti, psiconevrotici!
Perché portate sensibilità nell’insensibilità del mondo, inquietudine tra le certezze del mondo.
Perché sovente bruciano dentro di voi le emozioni degli altri come fossero vostre. Perché percepite le ansie del mondo, la sua ottusità e la cieca fiducia nei propri mezzi.
Per la vostra fobia di lavarvi le mani dalla sporcizia del mondo, per il vostro timore di rimanere rinchiusi tra limiti decisi da altri, per la vostra paura dell’assurdità dell’esistenza.
Per la vostra delicatezza nel non dire agli altri cosa vedete in loro.
Per la vostra goffaggine nelle questioni pratiche, e per la vostra praticità nell’affrontare l’ignoto, per il vostro sguardo lucido sulle grandi domande che vi allontana dalla vita quotidiana, per la vostra selettività nei rapporti e la paura di perdere gli amici più stretti, per la vostra creatività e per la gioia che vi travolge, per la vostra inadattabilità a ciò che “è”, e il vostro essere adatti a ciò che “dovrebbe essere”, per le vostri enormi ma inutilizzate capacità.
Per il colpevole ritardo nel riconoscere il vostro vero valore, che non insegna mai ad apprezzare il valore di quelli che verranno dopo di voi.
Per il vostro lasciarvi dirigere da altri quando dovreste esser voi a governare, per il vostro celestiale dono che viene schiacciato dalla forza bruta; per tutto ciò che in voi è preveggente, indicibile, infinito.
Per la solitudine e l’unicità del vostro percorso.
Siate benvenuti!(Dabrowski K., Psychoneurosis is not an illness,
London: Gryf Publications, 1972
traduzione inedita)
Di Stefano Rovea.
PER APPROFONDIRE
ASSOCIAZIONI ITALIANE CHE SI OCCUPANO DI ALTO POTENZIALE:
- agetitalia.it
- aistap.org
- associazionefarfalle.it
- didatticatalenti.com
- labtalento.unipv.it
- mensa.it
- plusdotazionetalento.it
- zetapiesse-apc.ch / giovannigalli-ch.com
SAGGISTICA:
- Siaud-Facchin J., Troppo intelligenti per essere felici, Rizzoli, 2016 (https://www.ibs.it/troppo-intelligenti-per-essere-felici-libro-jeanne-siaud-facchin/e/9788817088985)
- Zanetti M.A., Gualdi G., Morrone C., Bambini e ragazzi ad alto potenziale. Una guida per educatori e famiglie, Ed. Carocci, 2017 (http://www.carocci.it/index.php?option=com_carocci&Itemid=72&task=schedalibro&isbn=9788874667659)
- Galli G., ABC per l’APC. Quando ho scoperto che… Primo kit di sopravvivenza ad uso dei genitori, ZPS Edizioni, 2016 (https://www.academia.edu/24363711/ABC_x_lAPC_Quando_ho_scoperto_che_primo_Kit_di_sopravvivenza_ad_uso_dei_genitori) e ABC per l’APC 2.0 (https://giovannigalli-ch.com/abc-per-lapc-2)
- Mecchi D. S., Buniotto F., Bistaffa M., T.I.P.S. Talento, Intelligenza, Plusdotazione e Supporto: istruzioni per i genitori, Associazione Italiana Farfalle, 2019 (http://www.lulu.com/shop/daniela-silvana-mecchi-and-francesca-buniotto-and-mirko-bistaffa/tips-talento-intelligenza-plusdotazione-e-supporto-istruzioni-per-i-genitori/paperback/product-23945332.html)
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- Cairo M. T., Superdotati e dotati. Itinerari educativi e didattici, Vita e Pensiero, 2001 (https://www.ibs.it/superdotati-dotati-itinerari-educativi-didattici-libro-m-teresa-cairo/e/9788834307175?lgw_code=1122-B9788834307175)
- Andreani Dentici O., Intelligenza e creatività, Carocci, 2001 (http://www.carocci.it/index.php?option=com_carocci&task=schedalibro&Itemid=72&isbn=9788843020263)
- Goleman D., Intelligenza Emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici, Rizzoli, 1997
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(https://www.amazon.it/Youre-Smart-Why-Arent-Happy/dp/1101980737) - Ritchie S., Intelligence: All That Matters, Teach Yourself, 2016
(https://www.amazon.it/Intelligence-Stuart-Ritchie/dp/1444791877) - Deary i. J., Intelligence: A Very Short Introduction, Oxford University Press, 2001
- Dabrowski K., Positive disintegration, Boston: Little Brown & co, 1964 (http://amzn.to/2kzPvTv)
ARTICOLI DIVULGATIVI E ALTRE RISORSE DISPONIBILI ONLINE:
- Benjemia C., I Bambini ad Alto Potenziale Cognitivo — Fascicolo Informativo ASEP (Association Suisse pour les Enfants Précoces), traduzione a cura di A. e G. Galli (http://web.ticino.com/giovannigalli/APCFascicolo%20bambini%20AP.pdf)
- Bertini F., Alla scoperta del WAIS (https://kakkabis.home.blog/2019/12/31/alla-scoperta-del-wais/)
- Dainese C., Cos’è la plusdotazione (http://www.chiaradainese.it/wp-content/uploads/2017/10/Cos%C3%A8-la-plusdotazione.pdf) e Alto Potenziale Cognitivo: asincronia e dimensioni di sviluppo (http://www.chiaradainese.it/wp-content/uploads/2017/10/Alto-Potenziale-Cognitivo-Asincronia-e-dimensioni-di-sviluppo.pdf)
- Galli G., APC — TENDENZE: Riassunto sintetico della letteratura, settembre 2019 [inglese] (https://giovannigalli-ch.com/giftedness-tendencies-summary-from-the-literature-a-point-of-the-situation-what-the-most-recent-research-tells-us) e febbraio 2018 [italiano] (https://giovannigalli-ch.com/apc-tendenze-riassunto-sintetico-dalla-letteratura-un-punto-della-situazione-cosa-ci-dicono-le-ricerche-piu-recenti)
- Galli G., Studiare? Perché può essere difficile per un plusdotato (https://giovannigalli-ch.com/studiare)
Galli G., 2E = APC + DSA (https://www.academia.edu/37684087/2E_APC_DSA.pdf) - Roncoroni A. M. (a cura di), La plusdotazione ed i BES: un’analisi per l’inclusione — Aistap, 2014 (https://www.aistap.org/attachments/article/123/La%20plusdotazione%20ed%20i%20BES.pdf)
- Zanetti M. A., Una doppia difficoltà in classe: i bambini ad alto potenziale (http://www.aarba.eu/public/download/jarba2016/Educativa_Zanetti.pdf)
- Alla scoperta dell’alto potenziale, materiale del seminario del 29/09/2016, a cura del Laboratorio Italiano di Ricerca e Intervento per lo Sviluppo del Talento, del Potenziale e della Plusdotazione — Università di Pavia
(http://www.iclissonesecondo.gov.it/wp-content/uploads/2016/10/pdf-slide-seminario-29-settembre.pdf) - De Bruyckere P., Myth-Busting: Gardner’s multiple intelligences (https://researched.org.uk/myth-busting-gardners-multiple-intelligences/)
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