In fondo a tutte le felicità umane

Vivere nel benessere e nella libertà non ci salva da infelicità e ingiustizie.

Mensa Italia
5 min readAug 2, 2020

Siamo abituati ad affidare la definizione di libertà al britannico John Stuart Mill, che non a caso è considerato il padre del pensiero liberale, anche se, come dichiara egli stesso nell’incipit di On Liberty, il tema di cui tratta «[…] non è la cosiddetta libertà del volere, così infelicemente contrapposta a quella che viene impropriamente denominata dottrina della necessità filosofica; il nostro tema è piuttosto quello della libertà civile o sociale: la natura e i limiti del potere che la società può legittimamente esercitare sull’individuo». Dopo una tradizione filosofica anglosassone che aveva riconosciuto nello Stato il solo soggetto deputato a limitare la libertà degli individui e a esercitare la violenza, Mill si interroga su quanto e su come, in una democrazia, sia accettabile che l’individuo venga regolato da uno Stato o, ancora di più, da una società, come nelle idee socialiste che circolavano all’epoca. Per Mill la libertà equivale alla libertà degli individui di perseguire la felicità, al di fuori di ogni giudizio di cosa sia, nello specifico, a rendere ognuno felice. Sembrerebbe tutto a posto, fin qui.

Tuttavia, una definizione filosofica di libertà non può che nascere carica di passaggi assurdi, perché a rendere l’essere umano libero è innanzitutto l’aver maturato un’abitudine a contenersi.

Gli esseri umani sono liberi di agire, ma non liberi di recare danno ad altri, anche se questo dovesse farli stare bene. Il godimento di un serial killer potrebbe essere massimo nel momento in cui uccide. È di questo che Mill parla quando fa riferimento alla civilizzazione, che — nella sua visione da borghese ottocentesco entusiasta per il progresso — ha lo scopo di frenare quegli impulsi che con la loro esuberanza minacciano la stabilità della vita sociale. Insomma, sei libero, dice Mill, ma se sai stare al tuo posto.

La domanda sul rapporto tra libertà e piacere, ad ogni modo, non si limita all’indagine dei pruriti di una mente assassina, ma rischia di raggiungere vette molto più fastidiose, che ci chiamano tutti in causa.

Che tipo di libertà è possibile se ci si rende conto che il piacere che si persegue reca danno all’umanità intera e lo fa in modo sistematico? Sì, sto parlando proprio di questo: della crisi climatica e dell’aumento delle disuguaglianze.

Un argomento spinosissimo, che tira in causa parole che invitano a voltare pagina, più che proseguire nella lettura: consumismo, neoliberismo, capitalismo, globalizzazione. Allora facciamo che non le usiamo e che ci limitiamo a parlare del fatto senza giudicarlo: 2.153 miliardari nel mondo detengono più ricchezza di 4,6 miliardi di persone; India, Cina, Malesia e Indonesia sono i primi quattro Paesi per produzione delocalizzata; il potere economico tende ad accentrarsi più che a distribuirsi, con conseguenze sul piano politico e sociale; e se proprio non vogliamo parlare di consumismo, parliamo di consumo, del fatto che ogni anno vengono prodotti circa due miliardi di tonnellate di rifiuti e che i Paesi più ricchi (il 16% della popolazione) producono il 34% dei rifiuti mondiali, la maggior parte dei quali è stato un momento di piacere di cui abbiamo goduto liberamente.

Il consumismo potrebbe sembrarci un fenomeno recente, nato e cresciuto nella contemporaneità degenerata dei nostri giorni, ma in ottica di storia delle idee, le sue radici appaiono più lontane di quanto non si pensi: risiedono proprio nello spirito del tempo di Mill, che identifica — come esplicitò Schopenhauer — in noia e dolore i nemici della felicità e del piacere. E Freud, che elevò il piacere al ruolo di principio-guida della psiche, parlando di Lustprinzip (principio di piacere, appunto), ritenne che la riduzione delle tensioni dolorose, dei morsi del desiderio desse adito al piacere. Insomma, il consumismo era già lì, nella staffetta dei decenni del progresso e il passo tra il Lustprinzip freudiano e il Lust for life di Iggy Pop è stato in fondo breve. I movimenti di liberazione studentesca degli anni ’70 si sono svolti proprio all’insegna del connubio tra libertà e piacere, ma forse hanno portato alla rottura di un equilibrio che, chissà, forse era impossibile mantenere davvero tale, ottenendo una libertà e un piacere illimitati, senza il contrappeso della responsabilità e dell’autocontenimento.

È stato rotto un sigillo della Storia? Chissà. Fatto sta che i primi a interrogarsi sulla libertà non furono i filosofi inglesi, bensì i tragediografi greci. Le tragedie di Eschilo, di Sofocle e di Euripide sembrano svolgersi all’insegna di un destino crudele e già scritto, un destino tragico, appunto, eppure sono allo stesso tempo la celebrazione della libertà umana di scegliere: Antigone fu costretta dalla sua morale a seppellire il fratello ucciso o volle ribellarsi per il piacere di farlo? Oreste uccise la madre per vendicare il padre Agamennone o perché c’era di mezzo una successione? Il dilemma tragico mette sempre al centro la libertà e il dio punisce le scelte che mettono al centro il solo piacere personale.

Ci puniranno gli dei per il nostro consumismo? La domanda non è interessante, ma lo è un’assurdità tutta del nostro tempo.

Perché se il piacere ha raggiunto il massimo della sua libertà, è anche vero che è arrivato al culmine della sua anestesia.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità la depressione è tra le malattie croniche più diffuse a livello mondiale e si candida a diventare la prima; uno dei sintomi più importanti della depressione è l’anedonia, l’incapacità di provare piacere. Freud torna di nuovo in soccorso, quando dice che la sofferenza nevrotica altro non è che un piacere che non può essere avvertito come tale. Insomma, sembrerebbe che nell’esplorare la direzione della nostra libertà di essere felici, finora abbiamo preso qualche cantonata, ma questo significa che esistono miniere di piacere, di piacere vero, che devono ancora essere scoperte.

Di Armando Toscano

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