Immagini, immaginario e immaginazione.
La colpa non è delle immagini.
Ho avuto, di recente, la tentazione di metterle sul banco degli imputati e di proibire al loro avvocato difensore di mettere piede in aula. E invece mi sono ritrovato ad assolverle con formula piena e se ne sono uscite dal mio piccolo tribunale personale senza nemmeno dover pagare una cauzione.
Credevo di aver individuato nella tempesta di immagini che grandina sul mondo contemporaneo la causa dell’estinzione dell’immaginazione. In verità sono innocenti, incolpevoli, forse addirittura ignare del crimine di cui le accusavo.
Un considerevole contributo alla formulazione della sentenza mi è stato offerto da una lettera che mi ha costretto a riflettere su cosa sia effettivamente l’immaginazione, quale sia la sua origine e che cosa la metta a repentaglio.
Per proseguire mi è indispensabile confessare che da anni pubblico una popolarissima rivista immaginaria dal titolo Spècimen su cui scrivo articoli immaginari, firmati Martin Wurzburg. Martin risponde alle lettere immaginarie inviate alla redazione immaginaria da lettori immaginari.
Quello di Martin Wurzburg non è uno pseudonimo ma il vero nome del tuttologo immaginario che interpreto e che, a differenza del sottoscritto, ha sempre le idee chiare e la risposta pronta.
Ormai un paio di anni fa, dunque, gli è stata recapitata una lettera immaginaria scritta da un sincero giovane lettore immaginario precipitato in un inguaribile sconforto.
Gentilissimo Dott. Wurzburg,
questa lettera è il messaggio in una bottiglia di un naufrago scaraventato su una minuscola isola solitaria dalle onde dell’infinito e dal furibondo mare dell’angoscia.
Ho provato a confidare i miei sentimenti ad amici, compagni, genitori, professori e allenatori, mi sono spinto fino a bisbigliarli in ginocchio attraverso la grata di un confessionale, ma in risposta ho ottenuto soltanto mezzi sorrisi compassionevoli che liquidavano il problema come un’allucinazione o un allarme insensato.
Il fatto è che ho completamente esaurito la mia immaginazione, quella che pur avevo sperimentato in maniera quasi prodigiosa durante l’infanzia.
A distanza di quelli che tutto sommato sono solo pochi anni, quando chiudo gli occhi non vedo più niente. Anzi, forse molto peggio: vedo soltanto immagini altrui.
Provo a ricacciarle indietro, a farle sparire, ma sono troppe e troppo potenti. E così mi scopro sopraffatto da immagini di lasagne fumanti, comici che non mi fanno ridere e personaggi famosi che non ho mai sentito nominare, ragazze insulse che si atteggiano a dive immortali sul ponte di uno yacht, politici patetici, avatar che passeggiano in un metaverso squallido e puerile, corpi vestiti di tatuaggi inutili, sinistri eserciti di faccine gialle e rotonde che fanno le smorfie, conduttori radiofonici defraudati del proprio carisma vocale da telecamere impietose, specchi che riflettono ragazzini con addominali scolpiti o armi automatiche.
E io dove sono?
Io non esisto più. Chiudo gli occhi e non vedo niente, apro la bocca e non ho più niente da dire.
Se ancora significa qualcosa, l’unica parola che mi è rimasta è il nome con cui firmarmi.
Gregory.
La lettera del ragazzo e la risposta di Wurzburg sono state pubblicate sul numero di agosto della mia rivista immaginaria: la copertina era completamente nera e il titolo del periodico, stampato in un angolo della pagina con un carattere minuscolo di colore grigio scuro, era quasi invisibile.
Nonostante per le ferie estive le edicole fossero quasi tutte chiuse e le città completamente vuote, mi piace immaginare che la popolarità dell’articolo di Wurzburg abbia determinato una tiratura straordinaria, divenuta leggendaria tra gli editori e tuttora ineguagliata e ineguagliabile.
Mio giovane Gregory,
comprendo perfettamente il suo rauco e straziante grido di disperazione.
So bene quale pressione si debba subire in questi tempi, con un irriducibile schermo sempre in tasca che non smette di blaterare idiozie a colori a qualsiasi ora del giorno e della notte. La invito tuttavia a non disperare.
Mi permetta di raccontarle una storia.
Un giorno il fotografo veneziano Michele Alassio mi raccontò di essere dovuto andare in una scuola a tenere una lezione di fotografia. Nell’aula magna, davanti ai bambini, disse che non sarebbe stato possibile parlare di fotografia se prima non si fossero messi tutti d’accordo su che cosa fosse un’immagine. Chiese loro di pensare al volto della madre, poi prese una cartolina e la fece a pezzi davanti ai loro occhi. Nessuno, quando lo chiese ai bambini, fu in grado di fare la stessa cosa col volto che stavano fissando mentalmente perché “una madre è un’immagine, non una cartolina. E un’immagine, per essere tale, deve andare oltre la sua materia e le sue dimensioni: è fatta di ricordi, di affetto, di amore”.
Sappia, mio caro Gregory, che quelle che la stanno soffocando non sono immagini, sono cartoline. E delle cartoline, se vuole, può disfarsi abbastanza facilmente.
Faccia come Alassio: le faccia a pezzi.
Le vere immagini sono state invece i pilastri su cui è stata edificata l’evoluzione umana, culturale, sociale e scientifica. Non sono forse immagini quelle lasciate oltre 30000 anni fa sulle pareti della grotta Chauvet? O i dipinti dei miti sugli antichi vasi greci, i ritratti imperiali romani, le raffigurazioni del Buddha o le Madonne medievali? Grazie alle immagini si crea l’immaginario, quella sfera mentale, culturale e sociale che può influenzare tanto l’individuo quanto una comunità o un intero popolo. Purtroppo nel villaggio globale dell’età contemporanea l’immaginario è determinato in buona parte da esigenze commerciali e la nostra capacità immaginifica viene atrofizzata da un bulimico bombardamento di miliardi di cartoline. Ma la materia prima dell’immaginazione è il vuoto. L’immaginazione si nutre di buio, di silenzio, di confini sfocati, di dubbi e misteri, di incomprensioni, di sana ignoranza.
Non è un caso che Kublai Khan, ne “Le città invisibili” di Italo Calvino, possa comprendere meglio le condizioni dei territori e delle città del suo sconfinato impero con i metafisici e fantasiosi resoconti di Marco Polo piuttosto che grazie a descrizioni realistiche che sarebbero state inevitabilmente parziali e insufficienti.
Per poterle immaginare, è necessario che le città siano “invisibili”, che non siano esperienza dei sensi, ma della mente, perché il fenomeno, ciò che si percepisce, può trarre in inganno. Lo spiegava molto bene un aneddoto taoista citato da J.D. Salinger in cui l’esperto Kao, incaricato dal Duca Mu della ricerca di un cavallo eccezionale, si rivelava incapace di distinguere perfino il sesso o il colore di un animale. Eppure il cavallo da lui individuato era effettivamente eccezionale, perché “ciò che interessa a Kao è il meccanismo spirituale, egli guarda le cose che si devono guardare e tralascia quelle che non hanno importanza”.
La vista e i sensi non sono di alcuna utilità per l’immaginazione: essa consente di creare cose mai esistite e di vedere cose che nessun occhio ha mai visto.
Dopo l’avvento dell’energia elettrica, forse una delle più sconvolgenti rivoluzioni dell’umanità, i pionieri del design hanno dovuto concepire oggetti che non erano mai esistiti. L’immaginazione in letteratura, da Omero a Dante, da Kafka a Borges, da Cervantes a Philip Dick, ha generato immagini immortali. Oltre che alla base del pensiero filosofico, come spesso ripeteva il fisico Richard Feynman, l’immaginazione è il fondamento del pensiero scientifico. Qualcuno, prima che si potesse calcolare, verificare e dimostrare, ha immaginato la rotazione dei pianeti intorno al Sole, la composizione atomica della materia, i campi magnetici e le stelle pulsar. In questo preciso istante la giovane astronoma Natasha Hurley-Walker sta tentando di immaginare come funzioni il misterioso oggetto cosmico che ha appena scoperto e che emette lampi di onde radio a intervalli regolari.
L’immaginazione serve a vedere quello che non sappiamo o quello che ancora non possiamo capire. È un’intuizione, una specie di magia la cui provenienza è attualmente sconosciuta e di cui forse è capace soltanto l’essere umano.
È il faro che guida le nostre rotte, non possiamo permettere che si spenga.
Si goda la sua isola, giovane Gregory, che forse non è poi così male. Vedrà che presto qualcuno la verrà a trovare.
E non abbia timore, nessuno può portarle via la sua immaginazione. Basta spezzettare un po’ di cartoline e godersi la fecondità del buio.
Martin G. Wurzburg
In quanto creatore del disperato Gregory, dell’inossidabile Martin Wurzburg e del loro carteggio immaginario, ritrovo fusi in me stesso tutti gli elementi senza poter distinguere i confini dell’uno e dell’altro e oscillo fra entusiasmo e depressione, fra insicurezza e baldanza. Di una cosa però sono sicuro. Devo fermarmi, spegnere tutto e chiudere gli occhi.
Ecco, rimango qui fermo e zitto, in attesa che le immagini sepolte riaffiorino dalle misteriose profondità del cielo.
Lorenzo Scoles