Il vaso di Pandora
Quando le emozioni vanno in scena.
Cosa risponderemmo a un extraterrestre se ci chiedesse cosa sono le emozioni?
Dare una risposta che spieghi in modo chiaro cosa siano le emozioni e come abbiano a che fare con il corpo e con la mente non è un’impresa facile. Non è un caso, infatti, che le emozioni vengano definite come “processi complessi”, anche se è pur vero che spesso rappresentano solo una manciata di parole illogiche, irrazionali e irragionevoli che ci spingono ad agire, a metterci in gioco, come una corrente a cui è impossibile resistere.
Ma è davvero così?
In realtà sono molti gli esempi di persone che sembrano resistere a questo flusso continuo, capaci di gestire le emozioni, di modellarle o perfino di simularle, proprio come fossero un vestito da indossare e sfoggiare in base all’occasione.
Lo stesso Stanislavskij, inventore dell’omonimo metodo di recitazione, era persuaso della possibilità di riprodurre intenzionalmente le emozioni.
A suffragare questa tendenza c’è anche il saggio di Erving Goffman La vita quotidiana come rappresentazione: non solo un esperimento retorico, ma un’affermazione di come la vita di ognuno si divida in spazi di palcoscenico e retroscena ovvero in spazi pubblici in cui gli individui inscenano una precisa rappresentazione e in spazi privati in cui non “recitano”. Ovviamente la quotidianità e l’esperienza dimostrano come tali spazi tendano a fondersi e confondersi, prosaicamente per “salvare la faccia” o, in senso lato, per il mantenimento della pace o dello status quo.
Se le emozioni si possono davvero manipolare a nostro piacimento perché allora è così complicato definirle? A venirci in aiuto è la settima arte che, con la sua straordinaria offerta di emozioni sullo schermo, ne risulta un perfetto catalogo.
Il cinema, infatti, continua a fornire esempi, approfondendo a volte anche una sola delle emozioni primarie, come ne La Haine (L’Odio, 1995) di Mathieu Kassovitz in cui il tema dominante è la rabbia, o ancora in 127 ore di Danny Boyle, sulla paura di trovarsi soli e impotenti, passando per Il Disprezzo di Jean-Luc Godard. E, ancora, in Manchester By The Sea di Kenneth Lonergan, i cui personaggi sono intrisi di una profondissima e inestricabile tristezza, fino al suo esatto contrario con Forrest Gump di Robert Zemeckis, il cui protagonista, Forrest, attraversa la vita con inossidabile gioia, a tratti persino irreale. Infine, il paradossale Totò che visse due volte della coppia Ciprì e Maresco, un film che, ruotando intorno al disgusto che scaturisce dai suoi personaggi, riesce, a suo modo, a incantare. La fabbrica dei sogni ha poi sfornato due film, Blue Valentine di Derek Cianfrance e Storia di un matrimonio di Noah Baumbach, che hanno l’ambizione di voler raccontare tutto lo scibile delle emozioni in gioco all’interno di una coppia.
«Capisci perché questa cosa è importante per me?»
«Francamente no.»
Già da queste poche battute, tratte dall’ultima pellicola citata, possiamo riconoscere quello che tutti, nella vita, abbiamo, chi prima chi dopo, vissuto: la tendenza a comprimere le emozioni che si muovono dentro di noi. È in questa sorta di battaglia che la stessa emozione viene rappresentata o intesa in modo differente a seconda dello spazio di riferimento o del punto di vista del membro della coppia in gioco. Perché di questo si tratta: un gioco delle parti.
«Tu hai rifiutato il contratto che ci avrebbe permesso di vivere qui.»
«Non era quello che volevo, noi avevamo una vita fantastica… E poi non ho considerato niente di diverso.»
«È questo il problema… Non hai considerato anche la mia felicità.»
«Andiamo, tu eri felice. Tu hai deciso adesso che non eri felice!»
Da qui in poi si intuisce che le cose tenderanno a precipitare. A dominare lo scambio sono lo stupore e la delusione nell’ascoltare quello che i protagonisti speravano di non dover mai sentire.
Noah Baumbach ci suggerisce che il senso di appagamento derivante da una relazione viene a volte soverchiato dalla paura delle conseguenze “collaterali”. Forse la maggior parte degli sforzi durante la vita di una persona è proprio tesa ad arginare le emozioni, a liberare solo quelle ritenute proficue o, per così dire, utili. Perché le emozioni, nella nostra società, sono diventate un problema, sono spesso interpretate come sintomo di debolezza e, dunque, controllarle è diventata una necessità. La guerra che abbiamo ingaggiato contro le emozioni ha invaso i più svariati ambiti: un esempio per tutti, il mondo accademico, in cui persino la prestigiosa Bocconi ha creato corsi per il mental coaching e per imparare a liberare unicamente le “emozioni positive”.
Anche il famoso sito Wikihow, tra la ricetta dei ravioli e quella sui sette modi di arricchire l’uranio, ha una pagina su “Come imparare a controllare le emozioni”.
Queste, però, non sono il nemico ed esternarle è l’unico modo per recuperare il tempo perduto; quel tempo in cui le abbiamo messe da parte per altro di più rilevante a scapito di noi stessi e degli altri.
«Mi sembri tuo padre…»
«Non paragonarmi a mio padre…»
«Io non ti paragono a lui, dico che sembri lui.»
«E tu sembri tua madre… Quando eravamo a letto insieme mi sembravi lei… Ed era ripugnante!»
«Io provavo repulsione quando mi toccavi!»
«Sei una cagna…»
Ecco che la tristezza e il disprezzo si alternano in questo dialogo tra Charlie e Nicole, due persone che almeno per un momento si sono amate ma che adesso provano solo rabbia, quella che serve loro per far emergere le ambizioni fino a quel momento sopite.
A questo punto è chiaro che per i due la violenza, verbale e non, è la migliore difesa, qui usata per ferire quella persona che fino a pochi giorni prima era il centro del proprio mondo e che adesso, invece, possiede le armi e, potenzialmente, i colpi per vincere in un confronto.
«Tu non hai fatto che manipolarmi, sei demoniaco…»
«Entrambi sappiamo che hai scelto tu questa vita. L’hai voluta e poi non l’hai voluta più. Mi hai usato… La vita con te era grigia!»
«Tu hai deciso di scopare un’altra!»
«Non dovresti arrabbiarti perché ho scopato con lei ma perché ho riso con lei!»
Il disgusto e un malcelato senso di colpa si mischiano adesso all’ammissione del tradimento, visto quasi con distacco, perché la posta in gioco si è ormai alzata: siamo passati dalla rabbia alla paura, senza che nessuno dei due abbia più contezza dell’altro.
Il punto è che un’emozione o un sentimento non manifestati sono il primo segnale di rottura. La tesi di fondo è proprio questa: le emozioni non possono essere chiuse nel vaso di Pandora perché non sono un male, ma rappresentano ciò che ci rende vivi e veri, umanamente umani.
«Non ci credo! Devo avere a che fare con te per sempre!»
«Tu sei matta, cazzo!»
«Tu non mi amavi quanto ti amavo io… Sei così immerso nel tuo egoismo che non lo riconosci più come egoismo… Sei un coglione!»
«Ogni giorno mi sveglio e spero che tu sia morta… Morta!»
L’istantanea del finale di questo scontro-dialogo è crudele ma vera. La gamma di emozioni espresse risultano credibili, mettendo noi spettatori nella strana posizione di instaurare un legame empatico con i personaggi ma al tempo stesso viverlo con un certo distacco.
A questo punto è impossibile non citare Carver e il suo Di cosa parliamo quando parliamo d’amore? perché è questo, in fondo, quello di cui stiamo parlando: l’amore. Un amore che solo in superficie sembra solido, ma che invece rivela tutta la sua fragilità nel momento in cui gli uomini si affannano a controllare le emozioni.
Questo è ciò che avviene in Blue Valentine, in cui l’assenza di emozioni interrompe e congela la vita di una coppia in una sorta di elogio funebre di un amore in cui, nel presente, non vi è più traccia. Rimane solo il vuoto, come se le emozioni avessero preso la via di un altrove non più raggiungibile. Perché nella vita capita anche questo: le emozioni non ci sono più ed è a questo punto che non si riesce più a piangere o ridere; è il dolore che tutti prima o poi sperimentiamo a indurirci, a renderci automi che aspirano solo a sopravvivere perché vivere significa rischiare, soffrire e farsi travolgere dalle emozioni. Del resto, “senza emozioni il tempo è solo un orologio che fa tic-tac” (Equilibrium, 2002); sono proprio loro la nostra forza, quella che serve per osare, inventare, sognare e naturalmente amare, perché un’emozione spesso vale una vita intera.
Di Alessia Scali e Alessio Petrolino
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