Il problema dell’immaginazione

Mensa Italia
5 min readApr 28, 2023

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Il cartonista francese Michel Ocelot (Kirikù e la strega Karabà, Principi e principesse, Azur e Asmar) in un’intervista per FilmTV ha sostenuto di non aver mai apprezzato i cartoni della Disney. Questo per il fatto che hanno sempre proposto qualcosa di immediatamente comprensibile ai bambini, ponendosi il problema di mettersi alla loro stessa altezza, mentre per lui un autore di cartoni per bambini non deve chiederselo più di tanto.

I bambini, dice Ocelot, sono svegli, certe cose che non capiscono oggi le capiranno domani. E a quello che non capiranno nemmeno domani possono provare ad avvicinarsi con l’immaginazione, unendo i puntini e riempiendo gli spazi vuoti. E se l’immaginazione non basta, quello che resta opaco se lo ricorderanno e gli sarà più d’insegnamento di quello che gli è immediatamente comprensibile.

Fra le cose che non amavo da piccolo ci sono proprio i cartoni della Disney, i film come E.T. o Ritorno al futuro, Topolino, gli action figure, le macchinine, i robot, i giocattoli in generale e altre cose da gente semplice tipo Claudio, mio compagno delle elementari che entrava alla terza ora perché prima la nonna lo portava nei campi a raccogliere l’erba medica. Erano tutte cose che comprendevo, contenevo, mi saziavano, e non c’è sensazione più sterile della sazietà.

Fin da piccolo cercavo nelle cose color pantone le vie di fuga, le porte a scomparsa, i muri su rotaia, i crepacci e i meandri. Li trovavo su Slurp!, la rivista a fumetti di Carlo Peroni che negli anni ’80 mi sconvolse la vita. Li trovavo in quella fantastica e apocalittica kermesse che fu Un fantastico tragico venerdì, di Paolo Villaggio. Li trovavo fra le tavole degli Alan Ford dell’era Piffarerio, quelli rinvenuti per caso nelle buste sorpresa della mia infanzia, insieme a baffi a elastico, caramelle frizzanti e figurine dei cefalocordati nel mondo. Così come li trovavo in certi cartoni giapponesi, nei giochi da tavolo, nei film di Maurizio Nichetti, nell’unica regia cinematografica di Vittorio Gassman, ovvero lo strepitoso Senza famiglia nullatenenti cercano affetto, il mio film preferito fino all’adolescenza (soppiantato da Luna di fiele di Roman Polanski, quindi da Bianca di Nanni Moretti, poi da Via da Las Vegas di Mike Figgis, infine da L’Uomo che non c’era dei Coen). Meno li capivo, più mi sfuggivano di mano, più mi affascinavano, più ci tornavo sopra. E più mi ci perdevo, meno volevo ritrovare la strada. In quegli spazi vuoti fra le parole e i disegni trovavo terreno fertile per la mia immaginazione, potevo riempirli coi colori che volevo e trasformare una storia in un’altra, cambiare la posizione delle cose, rallentare i tempi o velocizzarli, rendere ordinato il caos e viceversa, mutare in spettrale il confortevole e viceversa.

L’immaginazione mi serviva anche per arrivare a capire quello che non mi era d’immediata comprensione.

Al Festival di Sanremo del 1987 partecipò Fausto Leali con la canzone Io amo. Il pezzo si apriva su questo escatologico quesito: “Ma dove va a finire il cielo?”. Non me l’ero mai chiesto. Così, al buio, con la testa sul cuscino, quella notte cercai di visualizzare dove il cielo potesse finire. Cercavo di scavalcare le distanze per arrivare a qualcosa e appigliarmici, ma ogni volta finiva che avevo il fiatone e galleggiavo nel vuoto. Potevo prendere la distanza più ampia immaginabile e metterla alla potenza più grande immaginabile e tanto ero ben lontano dal concetto d’infinito. Come era possibile? E cosa c’era oltre l’infinito? Non mi arrendevo, quindi usavo l’immaginazione come un grimaldello deduttivo. Una scatola. Una scatola enorme. “Ecco sì, c’è una specie di scatola enorme”. Questo mi tranquillizzò per una notte. Va bene, ma oltre quella scatola? Chiudevo gli occhi, visualizzavo l’oscurità del nulla e di nuovo mi si gelava il Nesquik. “Un’altra scatola, appena un po’ più grande”, fu la soluzione che mi detti. O anche un fantastiliardo di volte più grande, del resto stiamo giocando con l’immaginazione, non stiamo a spaccare in quattro il capello.

Poi iniziai a capire che non c’era scatola che tenesse, perché pure di quelle potevano essercene all’infinito e ognuna di quelle poneva il problema su cosa c’era dopo, magari io che tenevo in mano quella stessa scatola nell’esatto momento in cui mi stavo chiedendo dove finiva il cielo sopra di me. L’immaginazione per la prima volta si stava accartocciando su se stessa e diventò la chiave che apriva l’accesso a scenari spaventosi, esiziali e vertiginosi.

Immaginare cos’era l’infinità dello spazio mi portò a interrogarmi su cosa fosse un tempo infinito. E per me di tempo infinito ne esisteva solo uno: la vita eterna che ci spiegava Maria Conforta, la nostra catechista. Vivere un giorno dopo l’altro, senza fine, per sempre. E per sicurezza elevare il tutto all’infinito. Ogni volta mi mozzava il fiato in gola. In seguito, senza nemmeno accorgermene, la certezza imparata a memoria di quella vita eterna sarebbe sgocciolata via per lasciare solo l’acquitrino della consapevolezza del nulla eterno senza ritorno. E l’immaginazione avrebbe iniziato ad aprire crepe divaricanti.

Oggi, mentre i miei genitori si sfasciano sotto ai miei occhi, mi è impossibile non immaginare come sarebbe stato se da quella foto di noi tre fuori dall’hotel Kursaal di Misano, nei primi anni ’80, non fosse cambiato niente. E la trovo un’immagine così naturale. Perché non poteva essere così l’esistenza, visto che la mia mente può immaginarlo? Invece no: si muore un poco ogni giorno e ti spiegano che c’è solo da accettarlo. Bisogna soccombere, dissolversi nel caos indeterministico, ma che sia con discrezione, garbo, saggezza, lasciando il mondo pulito a chi ci sopravviverà. Altrimenti si è immaturi, infantili, ridicoli. Qualcuno ti spiega addirittura che dovremmo essere grati alla morte, perché è lei a rendere più bella la vita.

Qualcun altro ti consola dicendoti che vivere per sempre sarebbe una noia assoluta. Altri ancora ti propongono, a mo’ di tisana rilassante al cardamomo, l’assioma che la morte fa parte della natura e non fa distinzioni. E improvvisamente ti trovi a doverti aprire una breccia fra questi ragionamenti burocratici, freddi, grevi, astratti, biascicati da ultracorpi travestiti da esseri umani, da amici e confidenti, in un mondo che umilia l’immaginazione, relegandola ad una chill out zone per rilassarci prima di fare cose che contano.

È forse dopo i quarant’anni che l’immaginazione, più l’hai coltivata e coccolata per una vita, più diventa una zavorra, una garrota, quella che che ti fa sentire solo in una stanza buia, quella ti sbatte in faccia con una naturalezza perfetta come avrebbe potuto essere e invece non è, come sarebbe stato decente fosse stato, e invece non sarà mai. Uno spit-screen sempre presente, una crudele bossanova in filodiffusione mentre ci si consuma come cerini cercando solo di strappare attimi di contentezza in comodato d’uso, fino a che il calcio nelle articolazioni non è ancora abbastanza da paralizzarci.

Alessandro Gori

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