Il peso della memoria
Perché ricordare è la scelta più difficile.
«Ma beato te che hai una memoria di ferro!» Non so voi, ma se avessi un euro per ogni volta che hanno proferito questa frase nei miei confronti probabilmente adesso sarei… nah, avrei già trovato sicuramente un sacco di modi stupidi di spendere anche quei soldi. *Cerca disperatamente su Amazon per vedere quanto costa la PlayStation 5*
In ogni caso, sì, ho una memoria di ferro. Roba che mi ricordo cose anche di quando avevo due anni. Certo, in questo aiuta anche mio zio che non vede l’ora di raccontare alla morosa di turno di quando avevo neanche tre anni ed eravamo al mare e per il sonno sono crollato con la faccia in un piatto di maccheroni al sugo. Però il punto è che io, quell’aneddoto, me lo ricordo davvero. Come mi ricordo di quando, sempre a due anni, non riuscivo a dormire stando fermo e mio padre mi portava in giro all’una di notte in passeggino: la gente lo guardava come se fosse un pazzo criminale, ignorando che la mia insonnia era la causa del suo girovagare e non il contrario — tra l’altro, ora che ci penso, forse, gli sarebbe bastato mettermi un piatto di maccheroni davanti per farmi addormentare e stare serenamente a casa.
La memoria, dicevamo.
Ecco, fatevelo dire da una persona che tende a ricordare un mucchio di cose, spesso anche inutili: una buona memoria può essere un fardello molto pesante.
Alla memoria finiamo per delegare tante cose, anche non volendo, e le più infide di tutte sono le emozioni e le sensazioni. Credo che tutti sappiamo di cosa si parli: ci sono alcune canzoni di cui appena sentiamo cinque secondi ci esce un sorriso a trentadue denti che spesso non sappiamo spiegare, e magari, scava scava, quel motivetto era proprio quello che suonava in sala giochi quando avevamo sei anni e il mondo ci sembrava un’enorme giostra felice, fatta di gomme da masticare rosa shocking e sinfonie di Hadouken; ci sono alcuni profumi che ne senti una vaga folata e bam! — lo stomaco ti si chiude, perché la tua cotta (aspè che faccio il giovane: la tua crush) di quando avevi quindici anni usava esattamente quella fragranza e mannaggia quanti ricordi si porta dietro quel pomeriggio di fine giugno 1999, un sabato a smezzarsi una stupida piadina sul lungomare di Riccione e lei era lì, bellissima, con le gambe mezze cotolettate dalla sabbia dell’Adriatico e nei suoi occhiali da sole a specchio tu potevi vedere chiaramente riflessa la tua faccia da beota innamorato. Ci sono alcuni oggetti che, trovati dentro un cassetto nel fare il cambio stagione dell’armadio, portano in superficie persone che avremmo voluto rimanessero sul fondo ma niente, quei calzini con sopra Batman ce li hanno regalati loro e la prossima metà giornata la passeremo sicuro arrabbiati per un torto che ci avevano fatto due anni fa. Insomma, la memoria è un bel peso.
Uno dei miei film preferiti (forse IL mio film preferito) è Se mi lasci ti cancello di Michel Gondry; anche qui, il fatto che sia forse il mio film preferito dipende certamente dal fatto che ho tanti bei ricordi collegati ad esso e dunque, se lo riguardo, a volte mi trovo a provare un simulacro delle sensazioni di allora. Se mi lasci ti cancello, il cui titolo originale The eternal sunshine of the spotless mind è al contempo molto più bello e più azzeccato della traduzione italiana buttata lì un po’ a caso sperando di indurre ingenui spettatori a guardare una simil-commediola nello stile di quelle di Julia Roberts, tratta esattamente questi temi. Nonostante il film sia di più di sedici anni fa e se non l’avete visto sono anche un po’ cavolacci vostri, non voglio comunque spoilerare troppo, perciò illustrerò solo i cardini della narrazione: al centro del film c’è una coppia di persone che si conosce, si ferisce come accade in molte relazioni e combatte con il peso della memoria di ciò che è stato. E se ci fosse un modo per cancellare i ricordi legati a una persona? O a un evento specifico? Non sarebbe forse auspicabile questa luce del sole eterna della mente senza alcuna macchia (ora capisco perché non l’hanno tradotto letteralmente; bello il concetto eh, ma suona come una strofa del Symbolum ’77 che insegnavano a catechismo)?
Dall’altra parte dello spettro della scelta sulla memoria troviamo, come credo si stesse aspettando chiunque leggendo di cinema e questioni mnemoniche, il grande film di Christopher Nolan del 2000, Memento. Anche qui niente spoiler, ma abbiamo a che fare con una persona che non è più in grado di ricordare nulla da un certo momento della sua vita in poi, e dunque ha necessità di “prendere appunti” su ciò che gli sta accadendo perché cinque minuti dopo non si ricorderà più nulla a riguardo. Quello che apparentemente è un handicap notevole consente al protagonista, però, di indirizzare la narrativa di ciò che gli è effettivamente capitato nella direzione che più desidera e, peraltro, senza neppure la necessità di ingannarsi a riguardo, perché effettivamente lui non ricorda di aver preso certe decisioni, di nascondere alcune parti di storia, lui non può scegliere se ricordare o meno.
Sulla base di questi due esempi fornitici in maniera così magistrale da autentici luminari della settima arte, verrebbe da pensare che rinunciare a parte della memoria potrebbe risolvere molti problemi, specie andando a guardare negli ambiti legati al dolore emotivo.
Eppure, se chiedeste a me, che come detto ho una memoria di ferro, se volessi cancellare i ricordi più brutti della mia vita, risponderei di no. E credetemi, non è bello ricordarsi con chiarezza cristallina il momento in cui hai trovato la tua ragazza tra le braccia di un altro o il momento in cui ti hanno detto che l’azienda che dirigi verrà venduta a fine anno perché la proprietà sta andando inesorabilmente in fallimento e deve disfarsi degli asset positivi per fare cassa o, ancora, il momento in cui Gerry Scotti ti dice, davanti a sei milioni di spettatori, che no, carino, la risposta C che hai acceso è sbagliata e fai ciao ciao ai 10.000 euro ma cerca di non essere troppo triste in camera.
Nonostante questo, la risposta è no. Perché i ricordi, la memoria, sono le pietre angolari della nostra esperienza. Ricordare, ricordare con chiarezza, è l’unica cosa che ci permette di fare tesoro di tutto ciò che sperimentiamo.
Come potremmo evitare di ripetere i nostri errori se cancellassimo i ricordi negativi? Il dolore, in fin dei conti, esiste per un motivo. In natura è presente una rarissima condizione che ha un nome da supermercato di provincia, CIPA (Congenital Insensitivity to Pain with Anhidrosis), per cui chi ne è soggetto non percepisce alcun tipo di dolore. Bello eh? E invece no. Perché senza il dolore, questi individui non riescono a capire da cosa fuggire. Appoggiano il palmo su un fornello acceso e non sentono niente; centrano in pieno lo spigolo del tavolo con la coscia e non sentono niente; si mordono la lingua e non sentono niente, salvo poi trovarsi pieni di bruciature, ematomi, lividi e tagli e non sapere esattamente perché ma, soprattutto, non sapere come fare a evitarli.
Ebbene, il peso della nostra memoria serve a questo: a evitare di mettere la mano sul fuoco la prossima volta; a evitare di sbattere contro oggetti puntuti; a sviluppare quel minimo sindacale di propriocezione necessaria a non incorrere in ferite autoinflitte. Vale la pena scegliere di portare questo peso, non fosse altro che per cercare di essere persone sempre un po’ migliori giorno per giorno.
E poi, cosa vuoi, non puoi dimenticare le cose negative senza dimenticare anche quel tardo giugno 1999, una stupida piadina, e una ragazza in controsole che pochi giorni dopo ti spezzerà il cuore ma che ancora te lo fa battere al solo ricordo.
Di Simone Ferrari
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