Il pensiero lento della macchina

Se Bill Gates può prevedere il futuro, posso riuscirci anche io?

Mensa Italia
8 min readApr 26, 2020

Esattamente cinque anni fa, a marzo, Bill Gates era tra i relatori del TED 2015.

Di fronte a una sala gremita e straordinariamente attenta e silenziosa, il miliardario e filantropo statunitense (responsabile di buona parte delle recenti trasformazioni sociali ed economiche globali) avrebbe proposto al suo pubblico un tema che, per chi non conosceva bene il suo passato recente, poteva sembrare fuori dalla sua portata. Il titolo della conferenza era infatti: “Non siamo pronti per il prossimo focolaio”.

Bill inizia la conferenza entrando in sala con un carrello trasportando due grossi barili verdi. Questi barili, spiega, venivano utilizzati negli anni ’60 come contenitori per il cibo e posizionati all’interno dei bunker antiatomici per risolvere il problema del sostentamento in caso di disastro nucleare.

La frase che Bill pronuncia al termine di questo scenografico siparietto suona oggi quasi come una profezia:

«Oggi il più grande rischio di catastrofe globale non è più questo. (…) Se qualcosa ucciderà 10 milioni di persone, nei prossimi decenni, è più probabile che sia un virus altamente contagioso piuttosto che una guerra. Non missili, ma microbi. In parte il motivo è che abbiamo investito cifre enormi in deterrenti nucleari. Ma abbiamo investito pochissimo in un sistema che possa fermare un’epidemia. Non siamo pronti per la prossima epidemia.»

Mi sono interrogato molto in questi giorni su come fosse possibile che quest’uomo, a distanza di così tanti anni, avesse una visione del futuro così nitida. Ma soprattutto mi sono chiesto come sia stato possibile che nessuno di noi (o perlomeno pochi, e tra questi sicuramente non i potenti della Terra) sia stato capace di sposare la sua visione agendo di conseguenza. Perché invece di occuparci di questioni così importanti abbiamo preferito investire tempo e denaro in faccende che avevano a che fare con la contingenza, mettendo a rischio la sopravvivenza dell’intera razza umana, per contrastare fenomeni come i flussi migratori, la concorrenza della Cina o le guerre in giro per il mondo?

La risposta è che la nostra visione del futuro non è costruita su solide basi come quella di Bill.

E questa è la cattiva notizia, perché una visione del futuro sbagliata non solo porta a dare risposta a questioni irrilevanti, ma non risolve le vere emergenze del pianeta. Per dirla con Quelo:

«La risposta è dentro de te: e però è sbagliata!»

La colpa però non è nostra. O perlomeno, lo è in parte.

C’è qualcosa nel nostro codice genetico, qualcosa nel modo in cui tutti noi (Gates compreso) siamo fatti che ha permesso di evolverci con la massima efficienza ed efficacia, pur se con alcuni limiti. Limiti che all’alba del ventunesimo secolo, con la complessità che abbiamo introdotto nei nostri sistemi economici e sociali, non possiamo più trascurare.

Daniel Kahneman, psicologo israeliano fondatore della finanza comportamentale e premio Nobel per l’economia, è stato uno dei primi, se non il primo, a intuire, teorizzare e modellizzare i meccanismi che governano la nostra percezione della realtà e, conseguentemente, le nostre decisioni e azioni che condizionano il futuro. Qualcosa che insomma ha a che fare con la visione del futuro di cui parlavamo qualche riga più sopra.

Per spiegare meglio la sua tesi Kahneman si affida a una metafora, distinguendo i pensieri lenti da quelli veloci.

Potremmo definire i primi come la parte migliore dei nostri pensieri, perché basati su elementi di causa-effetto confutati da dati, calcoli, statistiche. Il pensiero lento è socratico, si basa sul dubbio e sulla continua messa in discussione della nostra visione del mondo su basi di realtà e su di un’analisi attenta e ragionata delle informazioni che abbiamo a disposizione, andando a pescarle anche laddove non ricordavamo di averle lasciate.

Sfortunatamente, per poter generare questo tipo di pensieri c’è bisogno di tempo e di energie. Non riusciamo a elaborarli automaticamente, ma dobbiamo metterci seduti a un tavolino, concentrarci e sperare che nel frattempo non intervengano elementi di disturbo.

Ora, l’elemento di disturbo che potrebbe intervenire nelle nostre vite potrebbe essere il rumore di fondo del televisore o della radio, il telefono che squilla o un nostro collega che ci disturba con i suoi discorsi inopportuni. Ma immaginatevi per un attimo quali potevano essere gli elementi di disturbo per la nostra specie all’inizio del nostro percorso evolutivo, quando il problema da risolvere non era trovare la soluzione di un’equazione ma sopravvivere in mezzo alla natura selvaggia. Al posto del televisore, del telefono o del collega poteva esserci un predatore. Cosa fare dunque di fronte ad un leone pronto a farci a pezzettini? Potevamo forse dirgli: «Aspetti un attimo signor leone, mi faccia pensare…»?

Ecco allora che per fronteggiare questa evenienza la natura ci ha dotati di pensieri veloci: quelli che più comunemente chiamiamo “fiuto” o “intuito”. Pensieri formulati non tanto su una base razionale, quanto invece su una serie di assunti che noi, in base alle nostre esperienze e alle informazioni che riusciamo a reperire con maggiore facilità in quel momento, reputiamo ragionevoli, sensati, anche se non necessariamente corretti. Il pensiero veloce è costantemente in attività e funziona inconsciamente. Che lo si voglia o meno c’è una parte del nostro cervello che in ogni istante, mentre camminiamo o mentre siamo in fila alla posta, raccoglie informazioni dai nostri cinque sensi e le rielabora per formulare in un lampo giudizi su quello che succede intorno a noi.

Giudizi, molto spesso, pregiudizi. Il pensiero veloce è quello che diceva all’uomo delle caverne che se sentiva un rumore intorno a sé non doveva star lì a ragionare se si trattasse di un leone, di un tuono o della caduta di un macigno: doveva invece correre a gambe levate verso la sua caverna, e doveva farlo subito. Il pensiero veloce è quello che oggi dice a noi che se un individuo ha una faccia strana sarebbe bene stargli alla larga ed è lo stesso pensiero che anche mettendoci seduti a un tavolino con tutta la calma di questo mondo fa apparire sensata (e dunque corretta) la teoria lombrosiana del criminale per nascita. La dottrina chiama questi errori del pensiero veloce bias cognitivi. Kahneman li ha catalogati e sono più di quanti ne ve ne possiate aspettare.

Capirete che, se avesse fatto affidamento solo sui suoi pensieri veloci, l’uomo non si sarebbe evoluto granché.

È infatti grazie alla continua interazione tra il pensiero lento e il pensiero veloce che l’uomo ha potuto sviluppare la sua conoscenza e la sua visione del mondo. E d’altra parte, che cos’è il metodo scientifico se non una forma di dialogo tra pensiero lento e pensiero veloce, dove il secondo intuisce qualcosa e il primo cerca di capire attraverso un processo razionale se quell’intuizione è corretta?

Potremmo dunque immaginare il pensiero lento come una sorta di guardiano del pensiero veloce. Un guardiano lento però, che oltretutto rallenta di giorno in giorno se non lo teniamo in allenamento. E più il guardiano rallenta più noi facciamo affidamento sulle nostre intuizioni. E quanto più questo accade, quanto più alto è il rischio che si possano prendere delle cantonate.

Potrà sembrare una questione triviale, ma smette di diventarlo quando il pensiero veloce si impadronisce di ambiti che deontologicamente dovrebbero essere di sola spettanza del pensiero lento come la scienza, l’economia o la politica. In una parola (per tornare a noi) della nostra visione del futuro.

La mancanza di allenamento del pensiero lento però non è solo una questione di pigrizia o di accidia. Per assurdo, al giorno d’oggi si fa meno ricorso al pensiero lento perché è aumentato spasmodicamente il numero di decisioni che dobbiamo prendere durante la giornata. La velocità introdotta nel sistema sociale dalle tecnologie informatiche richiede una reazione da parte nostra su tante piccole cose che solo una macchina opportunamente programmata (costituita essenzialmente di pensiero lento, procedurale) è in grado di processare. Accade dunque che mentre stiamo cercando di risolvere l’equazione sopra citata ci arriva a distanza di pochi secondi una notifica di Whatsapp sul telefonino, poi un like su Facebook, infine una mail su Outlook. E noi, oltre a risolvere l’equazione, dobbiamo fornire rapidamente risposte agli altri tre stimoli che nel frattempo sono sopraggiunti.

Oltre a questo, si aggiunga il fatto che il mondo che sperimentiamo oggi è molto più complesso di quello di un tempo e che le informazioni e gli stimoli che riceviamo sono tanti e tali da portarci spesso a non riuscire neanche a considerarli, come un computer che va in overflow. Insomma: tante domande e troppe informazioni per poter elaborare rapidamente altrettante risposte. Terreno fertile per il nostro pensiero veloce.

Curiosamente però, le stesse tecnologie informatiche che hanno causato questo guazzabuglio moderno (come lo avrebbe definito il Mago Merlino ne La Spada nella Roccia) sono al tempo stesso la causa e la possibile soluzione ai nostri problemi. Per poter prendere delle decisioni abbiamo a nostra disposizione macchine che possono interpellare migliaia di fonti di informazione ed elaborarle al posto nostro per restituirci risultati congruenti. Tutto sta, ovviamente, a usarle nel modo giusto, attivando il nostro pensiero lento per educarci a un utilizzo corretto di questi mezzi.

Ecco allora perché Bill ha una visione del futuro così sbalorditiva: perché Bill quelle macchine le ha programmate e sa sfruttarne le potenzialità conoscendone al tempo stesso i limiti. Attraverso le macchine Bill esercita il suo pensiero lento ed evita le semplificazioni da pensiero veloce tipiche (ad esempio) dei social network.

La macchina, nella sua natura neutrale, può insomma favorire sia il pensiero lento che quello veloce. Sta a noi decidere come programmarla e come educare gli utenti al suo utilizzo. Questa riflessione è in giro ancor prima che Internet entrasse a far parte delle nostre vite e nonostante questo è lungi dall’aver trovato delle conclusioni rassicuranti. Jaron Lanier (guru della Silicon Valley e padre putativo della realtà virtuale) si è spesso interrogato sulle finalità che hanno ispirato la progettazione delle interfacce informatiche che tutti noi oggi utilizziamo. Queste finalità secondo Lanier avrebbero in qualche modo favorito l’esercizio del pensiero veloce e permesso di costruire una visione del futuro condivisa che ci ha portati dove siamo adesso.

C’è però in questo vaso di Pandora (ed anche in fondo a questo articolo) un fondo di speranza. E lo riassumo con questo scambio di battute tratto dal film Ritorno al Futuro — parte III:

Jennifer (mostrando il fax di licenziamento di Marty del 2015): “Dottor Brown, avevo portato questo bigliettino dal futuro e ora si è cancellato!”

Doc: “Certo che si è cancellato!”
Jennifer: “Ma che cosa significa?”

Doc: “Significa che il vostro futuro non è ancora stato scritto, quello di nessuno. Il vostro futuro è come ve lo creerete. Perciò createvelo buono, tutti e due.”

Rileggendole alla luce di quello che ci siamo detti, è come se il Dr. Brown ci invitasse a fermarci un momento, a esercitare il nostro pensiero lento e a chiederci come possiamo fare per creare un futuro migliore per noi stessi con gli strumenti di cui disponiamo.

L’esperienza collettiva che stiamo vivendo in questi giorni, pur nella sua tragicità, ci dà la possibilità di farlo: possiamo ridurre il rumore di fondo delle nostre esistenze per cominciare a distinguere non solo il necessario dal superfluo ma anche il vero dal falso, senza giungere a conclusioni affrettate.

Di Alessandro Mantini

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