Il miglio nero
Quattrocento anni di sistematica privazione della libertà.
Il tempio di Moloch si staglia maestoso sullo schermo. La colonna sonora, composta appositamente, è per la prima volta perfettamente sincronizzata con l’azione cinematografica. La scenografia è maestosa e curata, e le comparse, quasi ventimila, assistono al sacrificio di bambini al feroce dio Moloch. La prima vera carrellata della storia del cinema segue l’arrivo di Maciste (alla sua prima apparizione) che aiuta a salvare la piccola Cabiria da sicura morte. La fuga rocambolesca dal tetto del tempio, girata senza controfigure, toglie il respiro agli spettatori. Solo quattro in realtà, ma uno di loro è Woodrow Wilson, il Presidente degli Stati Uniti d’America.
Cabiria, il primo colossal del cinema, fu anche il primo film proiettato privatamente alla Casa Bianca la sera del 18 aprile 1914 ed ebbe come unici spettatori il Presidente, sua moglie Ellen e due delle tre figlie.
Cabiria è una pietra miliare: ha didascalie firmate da Gabriele D’Annunzio (anche se la pubblicità lo accreditò come sceneggiatore), è tecnicamente innovativo (le carrellate sono fluide e omnidirezionali), è un taglio netto con il passato e, di conseguenza, influenza tutti i registi successivi come Cecil B. DeMille e David W. Griffith.
E proprio Griffith ha l’onore di essere il protagonista della seconda proiezione privata a casa del Presidente Wilson. E lo fa con un colossal della durata di più di tre ore, un ambizioso racconto della nascita dell’Unione attraverso la storia di due famiglie, una nordista abolizionista e l’altra sudista, nell’accezione più schiavista del termine. Il lungometraggio, tratto dal libro The Clansman: un romanzo storico del Ku Klux Klan prende il nome, giusto un po’ pretenzioso, di La nascita di una nazione ed esce nel 1915 nelle sale americane. Nonostante presenti alcune novità assolute come l’intervallo, l’uso diegetico del primo piano, la dissolvenza incrociata e la presenza di numerosi performer sullo sfondo delle scene per aumentare il realismo dell’azione, la pellicola non è passata alla storia per questo.
Il film apre con l’eloquente didascalia “Portare gli africani in America ha piantato il primo seme di disunione”. Lungo tutto il dipanarsi della trama, gli afroamericani, nella maggior parte dei casi interpretati da attori bianchi in blackface, sono rappresentati come stupidi e sessualmente aggressivi, mentre il Ku Klux Klan, che in quegli anni era praticamente inattivo, è connotato come una forza eroica. In una delle scene più famose l’attore Walter Long nel ruolo di un capitano di colore di nome Gus, tenta di approfittare di una fanciulla provocandone il suicidio. Le protagoniste femminili, spesso interpretate da uomini, nel migliore dei casi sono palesemente disturbate e spesso compiono atti ripetitivi e senza senso (prima dell’aggressione di Gus, la ragazza ‘dialoga’ con uno scoiattolo).
Lo stesso Presidente Wilson, subito dopo la proiezione, dichiarò di disapprovare quella “nefasta produzione” e il portavoce della Casa Bianca riportò che “il Presidente ignorava la natura dello spettacolo prima di vederlo, e non ha nemmeno per un istante espresso approvazione per lo stesso”.
Nonostante ciò, il film fu un grosso successo commerciale, con una notevole affluenza di pubblico. L’effetto immediato della proiezione del film fu la ricostituzione del KKK e l’inizio di una nuova scarica di violenza e linciaggi verso la popolazione di colore. In pratica, La nascita di una nazione è il primo di una lunga lista di film che portarono alla nascita di una mitologia criminale dei neri.
Questo perché la questione razziale è insita nella cultura americana fin dall’epoca coloniale, quando i pionieri identificarono gli indiani americani come un ‘problema’ da risolvere prima di avviare lo sfruttamento economico della regione.
Un contributo, spesso marcato, lo ha dato anche la rappresentazione cinematografica di neri, nativi americani, ispanici, italiani e altre minoranze.
Ad esempio Via col vento, un classico che fino a qualche settimana fa si poteva definire un capolavoro, fa implicitamente apologia dello schiavismo confederato. In un articolo sul L.A. Times lo sceneggiatore da Oscar di Dodici anni schiavo, John Ridley, ha chiesto la rimozione della pellicola per rispetto alle proteste sull’omicidio di George Floyd, chiedendo di reintrodurla con le dovute informazioni storiche. Contestualizzata, insomma. Però Hattie McDaniel, la tata di Rossella O’Hara, fu la prima attrice afroamericana a vincere un Oscar, anche se, come tutto il resto del cast di colore, non potè partecipare alla prima del film ad Atlanta (la Georgia era segregazionista) e alla cerimonia degli Oscar non potè stare in platea.
Se pensate che la storia di John Coffey, il gigante di colore condannato per stupro e omicidio di due gemelline nel film del 1999 tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King Il miglio verde sia per lo più inverosimile, potrei citare la storia di George Stinney Jr., raccontata nel corto The Current (2017) di Jamison Stalsworth. Come John Coffey, questi fu accusato di aver ucciso due bambine bianche i cui corpi furono trovati vicino alla casa in cui viveva con i genitori. Come John Coffey, fu giustiziato sulla sedia elettrica nel 1944. George Stinney Jr. però aveva solo 14 anni ed è il più giovane condannato a morte nella storia del ‘Grande Paese’. Il processo fu una farsa, il ragazzino era innocente, ma questo non contò poi molto: era nero e tanto bastava.
Per decenni le persone di colore nei film americani (a volte anche in quelli nostrani) sono o individui senza scrupoli legati alla malavita o personaggi bizzarri utili per l’economia della trama. In qualche caso entrambi.
In Starsky and Hutch, iconica serie televisiva degli anni Settanta, l’informatore della polizia è Huggy Bear, un afroamericano che si muove agevolmente nei bassifondi ed è al corrente di tutti i traffici illeciti della città. Siamo in piena Blaxploitation (fusione delle parole black, nero, ed exploitation, sfruttamento) e addirittura il personaggio di Huggy Bear è quasi all’acqua di rose. Infatti nel remake cinematografico del 2004, Huggy Bear è interpretato da Snoop Dogg, esponente del Gangsta Rap, una corrente della fine degli anni ’80 con testi violenti, spesso omofobi e sessisti, i cui temi principali sono droga, sesso, armi, e, in generale, le attività delle bande di strada. La scelta di Snoop Dogg nel ruolo di uno spacciatore di marijuana sembra quasi convalidare la visione generica del nigga, parola che non ha più alcun valore negativo per gli artisti neri i quali si fregiano di tale termine che, tra i vari significati, ha anche quello di ‘uomo rispettabile’. In pratica, per avere successo, gli afroamericani si sono dovuti adeguare all’idea che la massa si era fatta di loro, non senza qualche aiuto mediatico.
E con questa identificazione forzata dell’afroamericano criminale, informatore della polizia o, nel migliore dei casi, poliziotto senza scrupoli, anche i movimenti per i diritti civili ebbero moltissime difficoltà a evidenziare l’incongruenza della rappresentazione.
In Mississippi Burning (1988), Alan Parker ripercorre la vicenda di tre attivisti per i diritti civili (di cui uno di colore) uccisi nel 1964 da alcuni membri del KKK con la complicità dello sceriffo della contea. Con questa molla a far scattare l’indignazione popolare, dopo il gesto di disobbedienza civile di Rosa Parks nel 1955 e i fatti di Selma (portati sullo schermo nell’omonimo film da Ava DuVernay), le leggi “Jim Crow” furono sostanzialmente eliminate, ma il futuro degli afroamericani era già delineato. Con schiavitù, segregazionismo e discriminazione sul posto di lavoro aboliti, con la possibilità di votare estesa a tutte le minoranze, per porre fine al ‘problema’ rimaneva solo una possibilità: il carcere.
La verità è che il problema razziale negli Stati Uniti non è mai stato affrontato seriamente, anzi, probabilmente non è mai stato affrontato. Ad esempio nel famigerato XIII emendamento, che ufficialmente avrebbe dovuto abolire la schiavitù, è scritto a chiare lettere che la totale privazione dei diritti è ancora possibile “come punizione per un crimine per cui la parte sarà stata riconosciuta colpevole nelle forme dovute”. Tutto qui. Questo enunciato generico, nebuloso e funzionale allo scopo, sostanzialmente dà libertà al decisore di scegliere chi e come incarcerare. La conseguenza è che, ancora adesso, esiste nella costituzione americana un modo legale di ridurre qualcuno in schiavitù.
Dagli anni ’80 in poi, infatti, tutti i presidenti americani eletti fecero leva sul bisogno di sicurezza dei cittadini statunitensi. Reagan, i Bush e anche l’eccezione democratica Clinton vinsero promettendo il pugno duro. La famosa “legge dei tre colpi” di quest’ultimo, per la quale tre reati gravi portano all’ergastolo, fu funzionale all’impennata di arresti e alla conseguente carcerazione di massa di afroamericani e ispanici. Il sistema di case di correzione americano, in mano a un cartello di aziende private che ricevono ingenti finanziamenti dal governo centrale, ospita il 25% dell’intera popolazione carceraria mondiale. Di questi, oltre due milioni sono afroamericani. Se state pensando che i campi di cotone abbiano ceduto il passo ai centri di correzione, probabilmente non siete così lontani dalla realtà.
La questione razziale è ben più complessa di quello che è sempre trasparito dal filtro opaco dei media americani. Poi accade che in America viene ucciso un altro afroamericano. Scoppia la rivolta, vengono saccheggiati negozi, arrestati manifestanti e lo stesso presidente Trump si nasconde nel bunker. E in tutto il mondo riparte la crociata antirazzista con statue abbattute o vandalizzate e condanne a posteriori di qualsiasi cosa rappresenti o sia stata possibile grazie alla schiavitù.
Il punto è anche questo: è giusto condannare Via col vento, un film che rappresenta esattamente l’epoca in cui è stato concepito (il secondo dopoguerra, ovvero il periodo di incubazione di una delle più grandi ondate di xenofobia statunitensi) e che descrive un’epoca in cui invece il razzismo era la struttura portante della società?
Si dovrebbe quindi demolire il Colosseo per il suo valore simbolico? Un po’ come fecero i talebani quando distrussero due statue di Buddha risalenti al VI secolo perché la consideravano idolatria.
Io ritengo invece che tutte queste cose debbano restare, anzi, penso sia dannoso anche contestualizzare: la rappresentazione degli afroamericani, sia nel libro che nel film Via Col vento, è forzata e parodistica, e di sicuro molti se ne accorsero anche all’epoca. Insomma, non è cancellando la macchia che si eliminerà l’accaduto.
Nel 2014 l’orticoltore Eric Garner fu ucciso nella stessa terribile modalità di George Floyd, soffocato a morte da un poliziotto. Anche lui pronunciò due volte «I can’t breathe!» e anche lui fu vittima di una pratica vietata durante le operazioni di arresto. L’indagine si concluse con una “raccomandazione” da parte della commissione disciplinare di licenziare il poliziotto. La cosa non ha impedito che l’evento si ripetesse, figuriamoci se fosse passata sotto traccia come vogliono le leggi di New York, per le quali la maggior parte dei procedimenti della giuria devono essere tenuti segreti, comprese le trascrizioni delle testimonianze.
In 1984 di Orwell è la sistematica eliminazione del passato a plasmare il futuro. In ragione di ciò ritengo che anche La nascita di una nazione vada visto: rappresenta una visione distorta, è in larga parte inventato ed è disturbante. Ma è anche per questo che alla fine del film mi sono sentito molestato e ho avuto lo spunto per questo articolo. Poiché penso che il problema razziale non sia assolutamente semplice da affrontare e, in qualche modo, ci si debba sentire coinvolti e colpiti per poterlo comprendere. E non è contestualizzando gli avvenimenti che li si priverà delle loro implicazioni.
Di Alessio Petrolino
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