Il lato B della vita

Ovvero l’insospettabile virtù dell’insuccesso.

Mensa Italia
5 min readJul 12, 2021

Pasquale è ormai giunto allo stremo. La vita non è stata clemente con lui: quarantenne, appena scarcerato, aiutato solo dal cugino che tenta di reinserirlo onestamente nella società, fatica non poco a capire le evoluzioni del mondo del lavoro, così diverso da quello che ha lasciato forzatamente per scontare una pena per altro ingiusta. Pasquale passa con tenacia e determinazione da un impiego all’altro, provando anche a ottenere l’agognato posto statale, trovandosi però spesso inadatto o impreparato, vessato dai datori di lavoro anche a causa delle sue presunte inclinazioni sessuali e costretto ad abbandonare precocemente gli impieghi. Quando però tutto sembra perduto, una singola buona azione lo affranca: il ritrovamento dell’amato animale domestico di una signora benestante (una Luciana Turina in splendida forma), che gli varrà la sua eterna riconoscenza e segnerà l’inizio di una relazione appagante per entrambi, ma, soprattutto, la fine delle incertezze e il completamento del suo percorso di espiazione.

Da questa opera di Luciano Salce del 1982, Vieni avanti, cretino!, interpretata da attori di altissimo profilo come Pasquale Zagaria (vero nome di Lino Banfi), Gigi Reder (magistrale interprete della figura basso-borghese del ragionier Filini nelle epopee fantozziane) e Alfonso Tomas, possiamo sicuramente trarre anche un’interpretazione del senso della vita: sii te stesso e, prima o poi, troverai la tua strada.

Pasquale, infatti, si realizza nonostante la mancanza di affermazione tramite la conquista di un posto nella catena produttiva. Come lui anche diversi altri antieroi del cinema degli anni ’80, protagonisti di numerosi lungometraggi, la maggior parte dei quali incentrati sulle tematiche della realizzazione e della ricerca del senso della vita. Tema quest’ultimo centrale nel film di denuncia sociale Il ragazzo di campagna (1984) con un inedito Renato Pozzetto nel ruolo, a tratti drammatico, di un contadino che come un novello Enea parte dalla periferia rurale alla ricerca della propria identità in città. Al termine del suo viaggio il protagonista comprende però che il senso della vita risiede nel ritorno alle origini, alla sua fattoria, dove continuare a lavorare nei campi e sposare la donna che lo ha sempre amato.

Di fatto è nelle produzioni erroneamente bollate come ‘film di serie B’ che ritroviamo invece l’esperienza di pura ricerca del significato delle nostre esistenze.

È il caso di una produzione statunitense, diventata col tempo un cult movie. Ambientata negli anni ’80, scritta e diretta da un giovane James Cameron, racconta il viaggio interiore di un implacabile esattore di anime che ha perso la sua umanità e deve proiettarsi nel passato per ritrovare l’essenza della propria esistenza. Il protagonista crede causa della sua sciagurata esistenza la convinzione estrema di sua madre, donna persuasa dall’idea che il figlio sia il futuro salvatore del mondo. Nella sua odissea alla ricerca di questa figura materna, commette atti di una violenza inaudita, arrivando finanche all’autolesionismo. Nonostante le sole 18 battute (coadiuvate però da una recitazione molto fisica) e il tragico epilogo che lo vede letteralmente schiacciato dal peso delle proprie azioni, l’incessante determinazione dell’eroe nel seguire il proprio percorso rivela una verità fondamentale: il senso della vita si nasconde in ciò che non si è ancora realizzato mentre si è presi dalla necessità di perseguire un obiettivo che spesso non si comprende neanche. Ed è quindi con il fuorviante titolo di Terminator che questa mirabile pellicola ci fa riflettere sull’essenza della vita, come rilevato dalla rivista Empire che diede al film cinque stelle, definendolo “terribilmente efficace nell’estrarre brividi dal suo pubblico quanto lo è il suo protagonista nell’esecuzione dei suoi obiettivi”.

Ma se fino a questo punto abbiamo giocato sull’interpretazione in chiave esistenzialista di film che non hanno assolutamente questa pretesa, per me il senso della vita se lo è letteralmente costruito un regista nostrano, per la precisione lucano: Camillo Tanio Boccia, conosciuto anche con lo pseudonimo di Amerigo Anton, spesso additato come l’Ed Wood italiano. Attore, regista, sceneggiatore, scenografo, autore di colonne sonore e direttore della fotografia, Boccia era noto per il pragmatismo e per l’incredibile velocità con cui girava un lungometraggio (amava dire che con lui i produttori non sprecavano neanche un metro di pellicola). Boccia viveva letteralmente per fare cinema, spesso accettando sceneggiature inutilizzabili con il massimo disincanto. Specializzato in film western, fantasy, spy story improbabili e film epici (i cosiddetti peplum, con protagonisti Sansone o Maciste), faceva quello che più amava, pregiandosi dell’amicizia e della stima di registi del calibro di Federico Fellini e scoprendo personaggi come Raffaella Carrà, Moira Orfei, Ombretta Colli e Katherine Kendall (che intraprese poi una fulminea carriera oltreoceano). Famigerato più che famoso (celebre l’aneddoto di Sordi che, in una notte degli Oscar, telefonò a Fellini dicendogli: «A’ Federì, non l’hanno dato a te, l’hanno dato a Tanio Boccia!») aveva una notevole maestria dietro la macchina da presa, per nulla inficiata dalle finanze esigue che negli ultimi anni della sua carriera erano il comune denominatore delle sue produzioni. Ricorrendo spesso a vere e proprie magie come l’uso degli specchi per raddoppiare le comparse, l’acquisto di scenografie di seconda mano ed espedienti al limite del comico (per giustificare un movimento di camera tremolante, in fase di doppiaggio, fece dire al protagonista «Sta passando il treno!»), Boccia ha speso ogni momento della propria esistenza tra le braccia della sua amata, la sua unica ragione di vita: la cinematografia. Tra alti e bassi, tra delusioni (molte) e successi (pochi, se non di botteghino) ha letteralmente abitato nella fabbrica dei sogni, e per questo ha tutta la mia ammirazione. Nessuno gli ha mai dedicato saggi o retrospettive e, mentre a Cinecittà si diceva “peggio di così c’è solo Tanio Boccia!”, il regista, con pochi mezzi e tanta voglia di fare, è rimasto sul set fino a poco prima della sua morte, come ogni artista che si rispetti.

Se si è mai posto la domanda “qual è il senso della vita?” sono certo che non avesse dubbi sulla risposta: fare quello che più ci piace e morire facendolo. Grazie, Camillo Tanio Boccia.

Di Alessio Petrolino

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