Il fascino discreto della distopia

Al futuro non importa nulla dei calcoli, delle certezze, dei valori. Il futuro fa un po’ come gli pare.

Mensa Italia
5 min readApr 26, 2020

Il futuro può farti paura oppure tranquillizzarti, ma non segue i tuoi sentimenti. Non è di certo restio a illuderti o deluderti.

Il futuro ce lo possiamo immaginare brutto o bello in base alla nostra indole ottimistica, come nel vecchio discorso del “bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto”. Ma, sorpresa, il futuro nell’universo narrativo ci piace brutto. Ci piace il genere “distopico” per qualche motivo, ma per quale motivo?

Innanzitutto, “distopia”, in sé, è un termine non originale, nato come contrasto al ben più antico termine “utopia”. Lo stesso prefisso “dis” ne indica una aberrazione, un’alterazione dal funzionamento difettoso. Non ne è l’esatto contrario però: per quello c’è il termine anti-utopia, la quale differisce dalla distopia in quanto ha un chiaro obiettivo di confutare un’idea utopica, mentre la distopia punta il dito contro la degenerazione di tendenze, costumi o ideali già presenti nella società contemporanea. Cyberbullismo, razzismo, pigrizia dilagante, fake news e psicosi, giusto per fare alcuni esempi, sono l’humus ideale alla proliferazione del genere.

La linea di demarcazione tra distopia e anti-utopia è quindi sottile, così sottile da non impedire di poterle raccogliere sotto l’ombrello delle “distopie”.

Il tema distopico nella letteratura ha avuto la sua età dell’oro nella prima metà del XX secolo quando vennero pubblicati alcuni celeberrimi romanzi come Il Mondo Nuovo, Il Padrone del Mondo e 1984. Da qui, vista la presa sul grande pubblico, la distopia è divenuta soggetto anche per altre forme d’arte e comunicazione, quali film, fumetti e serie televisive. Ma torniamo alla domanda di cui sopra: quali sono i motivi per cui la distopia esercita un fascino così magnetico?

Denuncia di una tendenza, o di un costume, oppure ancora di una prassi, che prende piede nei tempi presenti, la quale viene esagerata e portata alle sue estreme conseguenze in un universo narrativo ambientato nel futuro per “illuminare le coscienze”. Una sorta di monito che riguarda qualcosa che al momento può sembrare innocuo, ma che è pronto a stravolgere la vita civile. Una presa di posizione politica, una consuetudine che sta diventando prassi.

Nella distopia le conseguenze vengono volutamente esagerate, magari facendo intendere che il processo che vi ha portato è stato graduale o, peggio ancora, si è consumato di fronte al silenzio e all’indifferenza della società civile. Ed ecco che il timore per quello che può accadere nel futuro può addirittura superare il dolore per eventi narrati dalla memoria storica: ciò che potremmo verosimilmente vivere sarà peggiore di quello che l’umanità ha già sperimentato. È questo che spinge il messaggio moralizzante di fondo più comune della distopia: “Datti una mossa a cambiare le cose, prima che sia troppo tardi!”.

La Tecnofobia è la paura delle nuove tecnologie o, per meglio dire, la paura di quanto l’uomo possa nuocere a se stesso e agli altri con le nuove tecnologie. Facendo attenzione a non cadere in un altro campo (la fantascienza), quello che contribuisce (consapevolmente o meno) a nutrire la paura qui è la “singolarità tecnologica”, ossia la teoria secondo la quale il tasso di innovazione, crescendo esponenzialmente, arriverà a un punto in cui l’essere umano non sarà più in grado di comprenderla appieno. La “fine del mito del progresso” non è nulla di nuovo, anzi, è un tema ciclico di qualsiasi generazione già dagli anni dell’ultima rivoluzione industriale. Ad essa si sono aggiunti in tempi recenti il concetto di privacy, di invasività della tecnologia, di intossicazione (social) e di conseguente alienazione (sociale).

Nell’opera distopica, uno dei tratti principali è la scarsa umanità: il cittadino futuro è dipinto, spesso e volentieri, come un essere poco più empatico di un automa. Il concetto della “retrospettiva rosea” viene ribaltato sul futuro.

Così come i tempi della nostra infanzia, bias molto più comune di quanto si possa pensare, ci fanno ricordare un mondo migliore di quanto in realtà non fosse, il racconto di un futuro in cui quei “valori” sono andati perduti viene percepito come una sua naturale conseguenza. Il lettore/spettatore è, dunque, messo nella strana condizione di “avere nostalgia del presente”.

Non solo la distopia è un mezzo di “denuncia sociale”, ma ha anche in sé una forte tensione narrativa che acchiappa il lettore: il pericolo dipinto in una finzione distopica è sempre realistico. Ciò porta a una forte e naturale immedesimazione. D’altronde, la narrazione distopica, per sua stessa natura, deve alludere al presente.

Immedesimazione che tocca un altro tasto al quale siamo tutti, a vari livelli, deboli: quello del ribelle romantico. Ci piace lottare per un ideale, ci piace prendere parte a delle battaglie sociali per la libertà, l’uguaglianza o altri nobili valori, o almeno ci piace pensare di farlo. Il protagonista della distopia è sempre impegnato a difendere gli ideali di cui sopra. Da qui una spontanea simpatia per le sorti di chi, fortunato lui, gode di questo privilegio.

Black Mirror

Quello su cui la fortuna della distopia poggia è anche il fascino del cinismo, il quale non è presente solo nel comportamento dei personaggi, ma anche nel messaggio di fondo. La narrazione distopica è un commento cinico della società presente, odierna. E l’indole dell’uomo comune nella finzione distopica non è solo cinica, ma violenta e sadica. Calcarne le tinte, esagerarne gli aspetti che intimoriscono per farne uno strumento di denuncia ha sempre costituito il volano di questo genere. Proprio come in una caricatura, la critica passa dall’aspetto grottesco.

La distopia, però, ha anche un rovescio della medaglia: la sua funzione di denuncia può essere letta sotto diverse chiavi.

A volte è ambigua, fumosa, come un oroscopo, e può cambiare significato a seconda di chi la legge: ne sono un esempio quei circoli di complottisti, “menti consapevoli” e varia umanità, che riempiono i social di citazioni e immagini estrapolate (e decontestualizzate, ça va sans dire) da universi distopici.

Un piccolo prezzo da pagare, forse, ma che non ci impedisce comunque di amare questa cinica e, a volte, aberrante, premonizione di ciò che sarà.

Di Giulio Virduci

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