Il domani di ieri e l’oggi di domani

Storie di un futuro passato.

Mensa Italia
9 min readApr 26, 2020

La predizione del futuro è un argomento di cui ci occupiamo, come genere umano, da quando le possibilità di sostentamento ci hanno dato l’opportunità di smettere di occuparci dell’immediata sopravvivenza in favore di una pianificazione.

Il futuro è quanto di più effimero ci sia, è il materiale di cui sono fatti i sogni e gli incubi della letteratura e del cinema. E la narrazione del futuro, di fatto, insieme alla narrazione dell’esistente è uno degli atti di politica culturale più potente al mondo, in quanto rappresentazione del motto orwelliano “chi controlla il presente controlla il passato, chi controlla il passato controlla il futuro”.

Tutti i popoli dell’antichità utilizzavano l’invocazione delle divinità per predire esiti di battaglie o risultati di produzione agricola con il fine ultimo di scongiurare situazioni negative o, viceversa, per portare doni con l’obiettivo di migliorare quell’esito. Roma viene, secondo la tradizione, fondata sul colle Palatino dove si trova Romolo, perché Remo, dal colle Aventino, vede solo metà degli avvoltoi volare e la cosa è di buon auspicio. La profondità di visione degli antichi era però limitata: le divinità erano invocate per futuri imminenti, “studi di fattibilità” su operazioni puntuali, dall’invasione di una città alla costruzione di un palazzo. Non si trattava quindi di una analisi a lungo termine del futuro per gli àuguri romani, così come non lo era per gli aruspici etruschi.

Fino al 1600 l’umanità produsse prevalentemente narrazioni orali e interpretazioni fantastiche e magiche di eventi astronomici o divinatori. Francis Bacon fu uno dei primi autori di romanzi utopici (è di fine ‘900 la definizione di utopia e di distopia da parte di Stuart Mill), nell’opera incompiuta New Atlantis, del 1626. In questa opera, che insieme ad altri scritti di Bacon avrebbe dato un manifesto all’allora nascente Royal Society, si narra di un luogo di altissima morale e con usi e costumi cristiani. Nella metafora utopica Bacon racconta di quello che immagina della nascente — per l’appunto utopistica — colonia americana. Un secolo dopo l’autore irlandese Samuel Madden scrive le Memorie del XX Secolo, romanzo nel quale un angelo fornisce all’autore una serie di lettere scritte dagli ambasciatori inglesi nelle principali città al tesoriere del re Giorgio VI. L’attenzione di Madden, in un’epoca molto più travagliata, è focalizzata sull’aspetto politico di un mondo futuristico dominato dai gesuiti da quando all’inizio del 1800 il gesuita Paolo IX viene eletto papa e prende il controllo temporale sull’Italia e, attraverso una guerra mal gestita fra Francia, Spagna e Sacro Romano Impero, su tutte le potenze europee. Il mondo vive in una utopia di liberismo cristiano contro una Russia espansionista ma in decadenza sotto il potere dei gesuiti. Tecnologicamente il 1997 di Madden non è in nulla diverso dal 1733.

Arriviamo poi agli albori dell’800 con l’autrice inglese J. C. Webb nell’opera The Mummy! che racconta di un mondo del 2126 nel quale Cheope viene riportato in vita, non più con alchimia ma con scosse galvaniche. Le donne portano i pantaloni e fiamme vive controllate come oggetti di bigiotteria; avvocati e chirurghi sono sostituiti da più efficienti automi a vapore; viene predetta la nascita di una rete di informazioni non dissimile dal concetto di Internet. Questo testo del 1827 è considerato, insieme al più noto Frankenstein di Mary Shelley, uno dei testi cardine del femminismo del XIX secolo. Con gli storici francesi Félix Bodin ed Émile Souvestre arrivano i primi veri e propri accenni di “futurologia”. Narrano di un tardo XX secolo dove tutto sarebbe stato spinto dal vapore, sia su terra con i treni che in aria attraverso palloni aerostatici mossi da ali artificiali. Predicono anche il declino delle monarchie e l’ascesa delle democrazie, il crollo delle imprese e l’importanza dell’economia globale. Tristemente, anche la difficoltà di eliminare le guerre, pur notando la gravità che si sarebbe raggiunta con le tecnologie più avanzate.

A metà del 1800 arrivano infine i due “pesi massimi”, Verne e H. G. Wells. Entrambi parlano di futuri nei quali la tecnologia è prevalente, ma mentre Verne tiene sempre una visione d’insieme scientifica, azzardando spiegazioni a volte molto fantasiose di strumenti e tecnologie future, Wells usa la metafora fantascientifica per criticare la società inglese dell’epoca. Nel romanzo Parigi nel ventesimo secolo, pubblicato solo nel 1994, 131 anni dopo la sua scrittura, l’autore francese ci racconta di Parigi nel 1960, in un futuro dove solo tecnologia e commercio hanno valore e significato, mentre il mondo umanistico viene relegato e dichiarato inutile. Le predizioni sugli anni ’60 sono notevolmente vicine alla realtà: dalle auto a combustione di gas ai grandi distributori, da sistemi di treni sopra e sotto terra ai grattacieli, da primitivi computer a un vago accenno a un sistema che permette di passare informazioni digitali a grande distanza (oggi lo chiameremmo “internet”), dalla luce elettrica ai fax, dai supermercati agli allarmi automatici. Ironicamente prevede anche il cambiamento di gusti musicali, con la musica elettronica a strumenti simili ai sintetizzatori. Al contrario Wells, nel suo testo più celebre, La macchina del tempo, racconta di un futuro lontano 800.000 anni circa dal suo presente, affrontando le problematiche di darwinismo sociale e marxismo di fine ‘900 piuttosto che il mondo del futuro, che rimane tristemente relegato a scusa narrativa senza precise analisi o predizioni estetiche.

Infine arriva il XX secolo. Del 1910 sono le cartoline Utopie dell’artista francese Villemard. Ci raccontano una visione del futuro (del 2000) molto più precisa. Dalla stampa di vestiti su misura ai monopattini elettrici, dalla polizia su moto ai cantieri elettrici, dalle video-missive (non sapeva che stava immaginando le temibilissime conference call) alle “aule elettriche”.

Nel 1908 Jack London scrive un romanzo distopico fuori dal suo stile, in prima persona, con un narratore uomo che scrive delle vicende di una protagonista di cui il nostro narratore legge un manoscritto in un ancora più lontano futuro. Il tallone di ferro di cui parla il titolo è una delle nascenti (il libro è ambientato negli anni ’30) oligarchie totalitarie del mondo, nello specifico quella americana, contrapposta a quella europea socialista e all’impero giapponese. L’obiettivo della narrazione è di far capire ai lettori che le opzioni sono aperte e che l’azione dei singoli può cambiare il corso di eventi storici.

Con il XX secolo arriva anche il medium cinematografico, che fa da punto di snodo per un cambio radicale di narrazione. Il futuro di Lang in Metropolis, del 1925, non è precisamente collocato ma ci racconta di un futuro capitalistico e alchemico. Il film fu profondamente criticato da H.G. Wells per lacune narrative e una eccessiva critica al capitalismo. Arrivano poi le guerre mondiali e le visioni del futuro si fanno più cupe. Sono di questi anni più recenti le distopie di Orwell, con 1984, opera del 1933, che racconta di un futuro sotto l’occhio del Grande Fratello, nel quale il populismo è diventato non solo parte integrante ma prevalente della comunicazione politica e il regime si fonda sull’ipocrisia e sul totale controllo della vita delle persone attraverso la semplificazione del linguaggio. Negli anni a seguire una struttura più “formale” a quanto raccontato da Orwell sarebbe stata data da McLuhan nelle sue analisi dei media. E Orwell nella sua semplice brutalità ci racconta spesso fin troppo lucidamente del presente dei social network.

La fine della seconda guerra mondiale costringe l’umanità a mettersi allo specchio vedendo gli orrori provocati ai nostri simili.

In quest’ottica Ray Bradbury ambienta nel 1999 il suo Fahrenheit 451, con il dramma della censura guidata dallo Stato. Il libro viene pubblicato nel 1953, già in era McCarthy e in piena caccia anticomunista. Nel futuro di Fahrenheit si vede la preoccupazione nell’uso degli stessi mezzi usati dai nazisti, il rogo dei libri per esempio, nel mondo che aveva fermato proprio il nazismo. Questa preoccupazione viene esplicitata nel monologo del capitano dei vigili del fuoco Beatty: la moderna necessità di velocità contrapposta alla lentezza precedente è appagata da riassunti e condensati informativi e titoli che non hanno il tempo di sedimentare nella mente dei lettori. E tutto non promosso e favorito dal Governo, ma dal basso, dalle masse e dalle minoranze per garantirsi la serenità. Insomma Bradbury ci racconta di un futuro in cui a contare non è il contenuto ma il titolo e l’immagine, e che sia rigorosamente poco carico di trigger. Come tutti all’epoca, non poteva nemmeno immaginare i social network.

Il secondo dopoguerra è il periodo della crescita economica e del progresso tecnologico, che parte dalle incredibili scoperte fatte durante il secondo conflitto mondiale: computer, penne a sfera, velcro,… La pace dell’Occidente porta a nuove visioni di futuri. È in questo periodo che cresce la fantascienza moderna, che in Italia si sublima nella storica collana Urania, iniziata nel 1952 e tuttora in pubblicazione. Troviamo romanzi di futuri vicini, come Il Grattacielo di Ballard, e lontani, come i futuri narrati nei racconti di Asimov. L’esplorazione dei futuri diventa sempre più una scusa metaforica per raccontare il what if delle situazioni sociali o culturali.

Con gli anni ’60 e ’70 la fantascienza cinematografica porta diversi elementi originali che raccontano di futuri più o meno remoti: Kubrick e Arthur C. Clarke con 2001 Odissea nello Spazio utilizzano un montaggio e una fotografia unici per raccontare forse nel modo più mistico possibile il viaggio umano dalle scimmie ai viaggi spaziali. Dall’altra parte, le prime serie di Star Trek mettevano un capitano spaccone e un aiutante iper-razionale dalle orecchie a punta a capo dell’Enterprise NCC-1701, in avventure ambientate nel 2250 in una società post-capitalista (questi aspetti verranno affrontati in TNG e DS9 negli anni 2000). Notevole è la scelta di contrapporre il futuro fantascientifico di Star Trek, che di puntata in puntata affronta il monster of the week, che spesso è più interno alla coscienza di uomini e donne che si trovano ad affrontare cose nuove o effetti di scelte passate e si costruiscono esperienze e un bagaglio cognitivo, al “tanto tanto tempo fa” della grande space opera dello stesso periodo, che è Star Wars (e che è sbagliato classificare come fantascienza).

Negli stessi anni si afferma una ulteriore forma di narrazione, la graphic novel. Negli anni ’80 Alan Moore pubblica V per Vendetta, la storia di V, un anarchico rivoluzionario con una maschera di Guy Fawkes che negli anni ’90 cerca di combattere il governo inglese suprematista bianco, neo-fascista.

Gli anni ’80 ci donano anche la trilogia cinematografica che più classicamente è portata alla mente alla mia generazione dalle parole “viaggio nel tempo”, ovvero Ritorno al Futuro di Robert Zemeckis. Solo il secondo film parla di futuro vero e proprio, che per noi nel 2020 è già passato recentissimo e quindi verificabile.

Con l’inizio del nuovo millennio diventa sempre più prevalente una narrazione incentrata sulla paura del cambiamento, complice anche nei primi anni 2000 il susseguirsi di bolle speculative e delle conseguenti crisi (Verne parlava di prevalenza del mercato, e poco ci sbagliava), e aumenta molto la narrativa sul futuro dedicata agli “young adults”, con saghe come Divergent, Hunger Games, Mazerunner, Ready Player One. Futuri nuovamente distopici fanno da ambiente a romanzi di formazione per il singolo o il gruppo che può segnare il suo tempo attraverso stilemi narrativi molto classici.

Insomma, quando il presente ci sembra così inutilmente banale, ricordiamo le parole di Charles Dickens, che a metà dell’800 insegnava che alla fine, ogni tempo è uguale a se stesso:

“[…] gli anni erano così simili ai nostri, che alcuni i quali li conoscevano profondamente sostenevano che, in bene o in male, se ne potesse parlare soltanto al superlativo.”

Di Marco Montanari

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