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Mensa Italia
5 min readAug 29, 2022

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La paura: un bene pubblico nell’era del capitalismo di mercato

“L’omm’ ca po fa a meno ‘e tutt’ cos’ nun ten’ paura ‘e nient’!”
(Salvatore Conte, Gomorra)

La paura, per quanto possa sembrare strano, è un sentimento attivo.

Diversamente dal terrore che ci immobilizza e ci rende inermi di fronte al pericolo, la paura è un automatismo che il nostro cervello, a un certo punto della sua evoluzione, ha sviluppato per garantirci la sopravvivenza, innescando reazioni involontarie di fronte a una minaccia reale o percepita.

Quando ad esempio affermiamo che “ce la siamo fatta sotto dalla paura”, non lo diciamo solo in senso figurato. Alcuni animali, al cospetto di un predatore, reagiscono defecando allo scopo di “alleggerire il carico” e correre più veloci nella fuga. Anche noi abbiamo mantenuto questo arcaico meccanismo di sopravvivenza, insieme ad altre reazioni istintive e, spesso, incontrollabili.

La paura risiede in quella porzione del cervello che negli anni ’70 MacLean (con la sua nota teoria del “cervello tripartito”) ha definito “rettiliano”. Si tratta di una parte sviluppatasi (in termini evolutivi) preliminarmente rispetto alle altre e all’interno della quale sono gestiti gli istinti primari e le funzioni corporee autonome. Presente anche all’interno del cervello dei rettili, da cui il nome, si occupa della difesa del territorio, della risposta attacco-fuga, dei comportamenti non verbali, della sessualità e della riproduzione.

Ciò che differenzia il cervello “rettiliano” dal sistema limbico e dalla neo-corteccia, è il fatto che i comportamenti da questo indotti non possono essere in alcun modo modificati dalla parte cosciente o sub-cosciente del nostro cervello: non sono cioè legati a un costrutto razionale che ne giustifichi la validità.

Di questa fondamentale differenza ne sono a conoscenza, tra gli altri, anche i pubblicitari e gli esperti di marketing, che sfruttano le reazioni rettiliane per invogliare i consumatori a scegliere, in modo automatico e inconsapevole, determinati prodotti o servizi.

I bisogni innescati a livello inconscio sono particolarmente efficaci per i prodotti di massa destinati al consumo quotidiano, dal costo particolarmente ridotto e privi di fattori differenziali sostanziali. Nella scelta di un detersivo, di un dentifricio, di un tipo di carta igienica o di un pacchetto di sigarette, il fattore che ci spinge ad acquistare l’una o l’altra marca spesso non è il prezzo o le reali qualità del prodotto, ma una reazione incondizionata che ci fa credere che quell’oggetto, in qualche modo, potrà garantirci maggiori probabilità di sopravvivenza e di continuazione della specie.

La paura rientra fra quei sentimenti che sono in grado di innescare una reazione involontaria, ma pur sempre effettiva, all’acquisto. E questo, in un’economia di mercato come la nostra, rappresenta un fattore da tenere sotto controllo.

La paura e le reazioni ad essa associate non si basano sull’esistenza di un pericolo reale ma sulla percezione del pericolo stesso. Per questo una narrazione adeguata, che induca a percepire un pericolo, è sufficiente a stimolare comportamenti d’acquisto di prodotti che ci aiutino a superare le nostre paure: un medicinale per contrastare la cellulite, un sistema d’allarme per prevenire i furti, un’assicurazione per tutelare la nostra auto da eventi infausti seppure altamente improbabili, come la caduta di un satellite o di un piccolo asteroide.

Fin qui non c’è nulla di male: un’azienda rileva un bisogno laddove altri non lo hanno ancora percepito, crea un prodotto o un servizio per soddisfarlo e con una certa dose di dolus bonus organizza una campagna pubblicitaria per dare dignità a quel bisogno e attirare potenziali clienti. La criticità di questo meccanismo risiede non tanto nel prodotto o nel messaggio in sé, ma nella sua collocazione all’interno di un palinsesto, di un’agenda di priorità di sistemi economici che possono arrivare addirittura a delegittimare l’azione degli Stati e delle comunità in favore di un mercato sempre più globale e distante da quelli che sono le reali necessità e problemi degli individui.

Ecco dunque che, se non opportunamente gestita, la paura diventa un sentimento che non solo ridefinisce i bisogni di una nazione, ma muove le scelte politiche, oltre che commerciali, dei singoli individui. Il tutto attraverso una narrazione sempre più definita da privati che, sfruttando le potenzialità dei media, creano consenso intorno a un tema al solo e unico scopo di generare profitti.

La paura è stata la leva che ci ha permesso di contrastare la pandemia del 2020, riorientando le nostre scelte sociali e favorendo, in modo del tutto incidentale, una transizione digitale già auspicata da tempo. Ed è ancora la paura che oggi sembra portarci a considerare la pandemia superata e a concentrare la nostra attenzione sulla guerra e sulla possibilità di un’escalation nucleare.

Nell’attuale contesto, gestire la paura diventa fondamentale non solo per chi vende, ma soprattutto per chi ha il compito e la responsabilità di amministrare un Paese. Sarebbe necessario comprendere le ragioni delle nostre paure e, attraverso narrazioni condivise sui temi che maggiormente preoccupano la società, spingere verso risposte più razionali, educando a un utilizzo più consapevole dei media e alla creazione di sistemi economici più sostenibili, capaci di mettere al centro le persone e di stimolare comportamenti virtuosi sia da parte dei consumatori che delle imprese.

Per quanto strano possa sembrare, bisogna superare la paura avendo “paura della paura”, rispettandola, riconoscendo la necessità che la modernità si adegui a questo strumento di sopravvivenza primordiale, e impedendo così che alcuni lo utilizzino per scopi personali. La paura, in questo senso, è un bene pubblico che, come tale, andrebbe gestito e preservato.

Sottostimare gli effetti dell’utilizzo della paura a scopo commerciale, lasciandola in mano a meccanismi di libero mercato e in assenza di correttivi di carattere pubblico, rischia di trasformare quello che fino a poco tempo fa è stato un valido meccanismo di sopravvivenza in una vera e propria arma di distruzione di massa.

Di Alessandro Mantini.

Manager del reporting di sostenibilità. Divulgatore dei temi dell’economia civile. Socio Mensa.

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