Giudicare la storia

Ha senso abbattere le statue di Gandhi e Cristoforo Colombo?

Mensa Italia
7 min readDec 27, 2020

Nei primi mesi del 1959, Martin Luther King Jr. visitò l’India e successivamente pubblicò un articolo intitolato “Il mio viaggio nella terra di Gandhi”.

“Gandhi è stato la luce guida della nostra tecnica di cambiamento sociale non violento. Abbiamo parlato spesso di lui. Così, non appena la nostra vittoria sulla segregazione degli autobus è stata vinta, alcuni dei miei amici hanno detto: «Perché non vai in India e vedi di persona cosa ha fatto il Mahatma, che ammiri così tanto».”

M. L. King Jr. chiese di poter dormire nella stanza dove aveva dormito Gandhi in modo da riuscire a sentire le “vibrazioni” del Mahatma ed essere ispirato per la sua battaglia non-violenta.

Nel 2018, una statua di Gandhi fu rimossa da un campus universitario in Ghana.

Gli attivisti ghanesi e malawensi lanciarono l’hashtag #GandhiMustFall, contestando un testo scritto nel 1903 dallo stesso Gandhi (che si trovava in Sud Africa proprio in quel periodo) in cui si può leggere che i bianchi avrebbero dovuto essere “la razza predominante” e che i neri “sono fastidiosi, molto sporchi e vivono come animali”.

Il suo biografo, Ramachandra Guha, ammette che “Gandhi da giovane seguiva le idee della sua cultura e del suo tempo. A vent’anni pensava che gli europei fossero i più civili, che gli indiani fossero quasi altrettanto civili, mentre gli africani fossero incivili. Tuttavia, [Gandhi] ha superato in modo decisivo il suo razzismo e, per la maggior parte della sua vita, come personaggio pubblico è stato un antirazzista, impegnato a porre fine a ogni tipo di discriminazione”.

Ciononostante, il movimento #metoo accusa Gandhi di violenza sessuale.

Secondo il Mahatma, infatti, invitare donne nude a condividere il proprio letto sarebbe stata una prova per dimostrare la sua integrità, ritenendo che “la violenza intorno a lui fosse in parte un prodotto o una conseguenza delle imperfezioni dentro di lui” e, di conseguenza, dovendo dimostrare anche a se stesso di non provare alcuna attrazione sessuale.

Nel contesto attuale, questo tipo di pratiche sarebbero inaccettabili, in quanto imposizioni su giovani ragazze (anche minorenni) da parte di una persona potente e riverita.

Gandhi, pur essendo un sostenitore dei diritti delle donne, fu anche molto critico nei confronti dell’abbigliamento moderno e del trucco, visti come una tentazione nei confronti dell’uomo. Il concetto della donna “tentatrice” era molto diffuso e questo tipo di pratiche e considerazioni non fecero scalpore al tempo.

Per gli standard contemporanei, Gandhi potrebbe essere considerato conservatore, mentre per gli standard del suo tempo era senza dubbio un progressista.

La domanda che dovremmo porci è: possiamo giudicare i nostri antenati sulla base delle norme morali di oggi?

Oltre a Gandhi, anche Colombo, George Washington e altri personaggi storici vengono oggi messi in discussione in base agli standard morali che governano la società odierna.

Possiamo definire la moralità come un valore immutabile e assoluto o bisognerebbe forse considerarla come un prodotto del tempo? Se possiamo concepire che si evolva nel tempo, allora è difficile condannare moralmente chi è nato e cresciuto in periodi nei quali la schiavitù era una pratica comune e considerata corretta dal punto di vista etico.

Dovremmo anche pensare a Gengis Khan, Hitler, Pol Pot come prodotti del loro tempo? E, se possiamo considerarli anomalie rispetto alla morale del periodo, cosa possiamo dire degli italiani liani o dei tedeschi cresciuti durante la dittatura, che continuarono poi a giudicare i dittatori che li avevano governati in maniera positiva?

Come giudichiamo la Russia comunista di Stalin? La Russia di uno zar debole come Nicola II sarebbe stata in grado di resistere a Hitler o la popolazione avrebbe abbracciato l’ideologia nazista? E che ne sarebbe stato di una Cina non comunista, rurale, stretta tra una Russia nazista e un Giappone fascista?

La debolezza dello zar è stata un elemento fondamentale nella diffusione del comunismo e lo stesso sarebbe potuto succedere anche con il nazismo.

Ovviamente siamo nell’ambito della fantapolitica, ma la verità è che è molto difficile capire se il mondo senza Stalin sarebbe stato migliore o peggiore. Giudichiamo quindi i personaggi storici sulla base delle caratteristiche personali o sulla base dell’impatto che la loro vita ha avuto sulla storia?

Dove dovrebbe essere tracciata la linea tra contestualizzazione storica e morale trascendente?

La filosofa Miranda Fricker ritiene che: “The proper standards by which to judge people are the best standards that were available to them at the time”, ovvero ogni giudizio storico andrebbe contestualizzato e non macchiato da una prospettiva morale come quella che spesso troviamo nei corsi scolastici. Un esempio? “I crudeli barbari che nel V secolo invadono il civile Impero Romano d’Occidente”.

Forse il passato, soprattutto quello remoto, dovrebbe essere capito più che giudicato.

Cosa pensavano di fare le persone? Quali sono state le forze morali, politiche, economiche e sociali che erano in campo durante il loro processo decisionale?

I valori da considerare sono molti, non è possibile ridurli a un’idea etica generale. A volte dobbiamo decidere che priorità dare ai nostri valori, senza però disporre di un confronto diretto e misurabile.

Se applichiamo una visione relativista all’etica, dobbiamo considerare i contesti storici nel loro insieme e accettare che non possono essere confrontabili tra di loro; è possibile valutare i sistemi etici solo internamente, utilizzando le regole che li caratterizzano.

Questa modalità, però, impedisce anche di giudicare situazioni particolarmente lontane dalla nostra visione contemporanea, come lo sterminio di intere popolazioni, a meno che non si possa dimostrare che gli standard a disposizione di chi le abbia perpetrate fossero tali da condividerne il giudizio.

Risulta quindi più facile accettare il relativismo culturale quando parliamo del passato remoto, ma non quando si parla di tempi recenti o culture contemporanee, anche se diverse dalla nostra.

Il filosofo Thomas Nagel introduce il concetto di “fortuna morale” in questo modo:

“Laddove un aspetto significativo di ciò che qualcuno fa dipende da fattori al di fuori del suo controllo, eppure continuiamo a trattarlo sotto questo aspetto come un oggetto di giudizio morale, possiamo chiamarlo fortuna morale”.

Il concetto di fortuna morale viene ripreso e ampliato dal filosofo Peter Levine:

“È molto improbabile che io possa diventare un nazista, poiché sono nato da padre ebreo negli Stati Uniti decenni dopo la seconda guerra mondiale. Ma se fossi stato un tedesco non ebreo, nato nel 1910, probabilmente sarei stato un sostenitore nazista nel 1939, perché la maggior parte lo era. Se fossi nato schiavo in Virginia nel 1850, mi sarei opposto appassionatamente alla schiavitù, ma se fossi nato da uno schiavista bianco in quel momento, avrei sostenuto la schiavitù perché il mio gruppo e la mia cultura lo facevano. Quindi è moralmente fortunato che ora io sia contrario alla schiavitù e al nazismo, ma potrei essere moralmente sfortunato ad avere tutti i tipi di paraocchi che non riconosco.”

Fatte queste premesse, possiamo affermare che il concetto di “fortuna morale” non diminuisce necessariamente le singole responsabilità delle persone.

L’esistenza di abolizionisti negli Stati Uniti a metà dell’Ottocento e di oppositori al nazismo negli anni ’30 e ’40 dimostra che era possibile per gli individui riconoscere l’immoralità della schiavitù e del nazismo. Persone come gli schiavisti e i sostenitori del nazismo, ad esempio, sarebbero quindi effettivamente responsabili delle loro convinzioni e azioni, pur non essendo in grado di riconoscere l’immoralità di queste situazioni, appartenendo a dei sottoinsiemi culturali nei quali non sarebbe stato possibile alcun tipo di pionierismo morale.

Dobbiamo aspettarci anche noi di essere giudicati dalle generazioni future, che probabilmente avranno standard diversi dai nostri.

Il relativismo storico si applica però principalmente al passato remoto e non al passato prossimo.

Ha senso continuare a condannare moralmente le azioni dei nazisti? Sì, perché la spinta di questa ideologia non è ancora totalmente svanita ed esistono ancora persone che ne potrebbero essere influenzate.

Il Giorno della Memoria e le altre attività di ricordo e comprensione dell’olocausto non servono ad accusare i nazisti per le loro azioni, ma per attivare un processo di educazione morale che impedisca a noi stessi e alle nostre società di scivolare di nuovo in quell’orrore.

In casi come questi il passato ha ancora rilevanza morale per il presente e per il futuro prossimo, di conseguenza il giudizio diventa inevitabile.

Quando parliamo di passato remoto, il contesto morale dell’epoca diventa inaccessibile e, per sua natura, si configura in maniera così diversa dal nostro che diventa impossibile, per noi, valutarlo adeguatamente.

Certo, non possiamo dire che la moralizzazione del passato sia sempre sbagliata, ma il nostro tentativo di farlo rischia di diventare una limitazione alla nostra capacità di comprenderlo (che è l’obiettivo che dovremmo porci) senza necessariamente giustificarlo.

Di Alberto Viotto

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