Fallimento o Esperienza?

La scienza dell’errore.

Mensa Italia
6 min readNov 10, 2021

A prescindere da come lo si voglia declinare, che si parli di sport o di scuola, di lavoro o di relazioni amorose, il succo della questione è sempre lo stesso: in quanto essere umani — senza distinzione di etnia, sesso o età — siamo tutti fallibili e pertanto soggetti al grande dramma del nostro tempo: l’errore.

Forse ora più che mai, in un mondo patinato che esaspera la perfezione e le vite da copertina sbattuteci in faccia continuamente dal web (social network in primis), sembra che la possibilità di poter fare qualche buco nell’acqua non sia assolutamente contemplata. Nel mondo del lavoro così come in tantissimi altri ambiti della nostra esistenza, spaziando dai canoni estetici fino allo stile di vita, i toni idilliaci e da film hollywoodiano appaiono quantomeno esasperati.

Un ulteriore punto focale, alla base dell’odierna visione distorta dello sbagliare, è l’inconscia e comune applicazione di un principio matematico a tanti, forse troppi, lati della nostra vita: la proprietà transitiva.

In effetti, quella che è una delle proprietà alla base del pensiero scientifico — e che viene insegnata sin dai primissimi anni di scuola — sembra essere inconsapevolmente applicata a una moltitudine di situazioni che esulano dall’ambito accademico, come a voler emulare ciò che tanto bene viene impartito tra i banchi.

Ma andiamo per gradi: la proprietà transitiva è, invocando l’esempio più comune e intuitivo, quella proprietà per cui se A è maggiore di B, ma B è maggiore di C, allora A sarà sicuramente anche maggiore di C.

Ora proviamo a riflettere su questo: quante volte siamo portati a pensare che, se un approccio con un potenziale partner fallisce malamente, allora automaticamente fallirà anche quello con un partner che è oggettivamente considerato migliore (“maggiore” in matematichese) di quello che ci ha rifiutato? O ancora, per quante persone è lecito aspettarsi che, se veniamo scartati al colloquio di lavoro con un’azienda non molto rinomata e a cui non siamo nemmeno particolarmente interessati, allora diventa inutile anche solo tentare il colloquio per un’azienda più prestigiosa? Questi sono solo due esempi per rendere chiaro il punto: tale convinzione è una percezione abbastanza comune ma su cui raramente ci si sofferma a pensare. Eppure, per esperienza personale e di molte altre persone con un bagaglio ben maggiore di esperienza, è estremamente fallace: empiricamente è facile dimostrare il contrario semplicemente attingendo alle esperienze di vita di tanti (provare per credere!).

Tuttavia questo bias cognitivo costituisce spesso e volentieri un blocco emotivo, un timore innato che ci porta a desistere dal buttarci a capofitto in qualcosa, solo perché il fallimento sicuro e inevitabile è ciò che ci viene suggerito da un concetto puramente matematico.

Tutto ciò va a rafforzare il falso mito della paura dell’errore, fornendole un ulteriore e ingiustificato pretesto, infittendo così l’alone di terrore creatosi attorno alla possibilità di concedere qualche sbaglio per imparare.

La realtà è che tutti i tentativi non andati a segno non sono altro che bagagli di esperienza, che è proprio l’altro punto chiave, l’altra faccia della medaglia: è proprio tramite gli errori che accumuliamo quella che comunemente definiamo “esperienza”, sono infatti gli errori, da cui possiamo imparare, che ci permetteranno di ambire al massimo, che si parli di un partner ideale così come di un’agognata posizione lavorativa.

Effettivamente siamo tutti quanti portati, sin da piccoli, ad applicare automaticamente certi schemi al nostro modo di leggere e vivere le situazioni e, in questo caso, ad applicare erroneamente un principio scientifico, ma teorico, a situazioni prettamente reali. Ma la realtà è ben più complessa di un modello matematico e quindi lontana dal poter essere intrappolata comodamente tra le rigide regole di un mondo stilizzato.

Quando si parla di argomenti così delicati ma allo stesso tempo inflazionati, l’errore (appunto) in cui si incorre è spesso quello di cadere in vuota retorica, facendo appello a ragionamenti troppo aleatori e fumosi. È proprio per questo che ora il focus sarà su un aspetto molto pratico delle nostre giornate e con cui tutti bene o male abbiamo a che fare, che sia per interessi diretti o per semplice informazione quotidiana: la realtà economica e in particolare il mondo dell’imprenditorialità.

A livello di ricerca universitaria, esiste un filone consistente ma a molti sconosciuto, interamente dedicato all’analisi delle dinamiche di management e di conduzione delle imprese economiche. Più nello specifico, si studia quali siano i pattern e i fattori determinanti che caratterizzano il successo (o il fallimento) di aziende e start up. Avendo avuto l’occasione di studiare tanta della letteratura scientifica prodotta sull’argomento, un aspetto estremamente rilevante che emerge è proprio il seguente: il ruolo centrale ricoperto dalle passate esperienze, anche fallimentari, degli imprenditori nel successo economico delle nuove imprese.

È evidenza scientifica infatti che l’aver già condotto attività imprenditoriali, nel medesimo o in altri settori, può sovente portare una neo impresa a riscuotere grande successo. Questo è dovuto — oltre che a ovvie dinamiche di apprendimento — anche alla costruzione di un solido e affidabile network di persone, all’accrescimento del know-how del singolo individuo, a una più approfondita conoscenza dei meccanismi di mercato propri di un certo contesto economico, a un minore impatto delle distorsioni derivanti dagli impulsi psicologici più emotivi e, in generale, alla capacità di riconoscere le “cose da non fare”, in modo da saper meglio e più velocemente individuare cosa invece debba essere fatto.

Quanto sopra descritto può essere riassunto in una sola semplice parola: esperienza, appunto.

Ancora una volta, l’importanza dei tentativi passati e spesso fallimentari sembra quindi centrale nel processo di crescita umana, e in questo caso anche lavorativa, di un individuo. Una moltitudine di paper scientifici internazionali datati (Gimeno et al., 1994) o meno (Vliamos & Tzeremes, 2012), così come anche di ricercatori nostrani (Pugliese et al., 2016), affermano che l’esperienza sia una discriminante fondamentale, in quanto dimensione esclusiva di ognuno e pertanto difficilmente replicabile. Inoltre, la teoria economica suggerisce che per ogni attività d’impresa sia impensabile non contemplare il rischio di errore o fallimento; il trucco sta quindi proprio nel sapersi evolvere in itinere, imparando dai propri errori attraverso approcci adattivi (trial-and-error in gergo tecnico) applicati al decision-making, ai quali si fa riferimento in letteratura coi nomi Lean (Ries, 2011; Camuffo, 2017; Vaskiv, 2018) ed Effectuative (Sarasvathy, 2003; Shepherd et al., 2012).

Anche altri studi recentissimi hanno confermato l’influenza statisticamente significativa dei fallimenti imprenditoriali passati (Campo, 2021) sul successo delle nuove giovani imprese, e per di più con il massimo della rilevanza statistica (per i pochi appassionati del genere, parliamo di regressioni con p<0.01). Questi noiosi numeri non fanno altro che calcare la mano su un solo punto centrale:

errare è umano, fa parte di qualsiasi processo di crescita e diventa un punto di forza nel momento in cui costituisce fonte di apprendimento, in qualsiasi campo della vita.

In conclusione “Chi fa, sbaglia”… e andrebbe aggiunto “mentre chi non fa, cerca di insegnare agli altri come avrebbero dovuto fare”, perché forse quella di non agire è solo la scelta più semplice: molto più comodo rimanere nel limbo e non fare il passo, giudicando con ribrezzo coloro che hanno provato e umanamente errato, mentre si cerca di spiegare quanto era insensato e sbagliato anche solo pensare di poterlo fare.

Ma d’altronde c’è da capirli, sono esseri umani, no?

Di Davide Campo

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