Errare nell’errore

Viaggio tra le parole.

Mensa Italia
6 min readNov 10, 2021

Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una e la guardo fino a quando non comincia a splendere.
(Emily Dickinson)

Parliamo per comunicare, ma l’importanza del linguaggio che adottiamo viene troppo spesso sottovalutata.

A conferma di questa tendenza c’è la radicata convinzione che, nella comunicazione, la componente verbale incida solo per il 7%, mentre le componenti “paraverbali”, ovvero quelle che riguardano il modo di comunicare (principalmente tono della voce, ritmo e volume), incidano per il 38% e quelle “non verbali”, ovvero il cosiddetto “linguaggio del corpo” (postura, gestualità, espressioni del volto, prossemica) per il 55%.

Ma non è così.

Queste percentuali, riconducibili a uno studio dello psicologo Albert Mehrabian (e successivamente smentite dallo stesso autore), non sono attendibili se generalizzate, in quanto riconducibili a uno studio circoscritto alla sola comunicazione dei sentimenti.

Quanto influiscono allora le parole?

Utilizziamo le parole per esprimerci quando parliamo, quando scriviamo, quando definiamo o descriviamo qualcosa o qualcuno. Perfino quando pensiamo, usiamo parole. Viene facile intuire e cogliere quanto sia importante essere consapevoli delle parole che usiamo, o meglio, che scegliamo di usare.

Come affermava Gandhi: “Le convinzioni diventano pensieri, i pensieri diventano parole, le parole diventano azioni”.

Le parole, infatti, si traducono in azioni, influenzando il nostro inconscio e, di conseguenza, i nostri comportamenti, incidendo sia a livello di dialogo interiore che nella normale e quotidiana comunicazione con gli altri e, in maniera spesso inconsapevole, può succedere che queste impattino con effetti rilevanti nella vita di ognuno.

Una parola di conforto ci può sollevare da un momento di difficoltà, come, al contrario, una critica espressa in modo troppo diretto e tagliente può portare a frustrazione, rabbia, senso di inadeguatezza o anche all’autoconvinzione di “non essere abbastanza”.

Si litiga, con le parole; ci si offende, con le parole; si può arrivare a duri contrasti e tensioni, e anche a perdere un’amicizia. Si possono perpetrare violenze psicologiche: cyberbullismo e hate speech, argomenti molto attuali, ne sono una evidente dimostrazione.

Ma le parole possono avere anche un influsso benefico: si possono intavolare dialoghi costruttivi, si può insegnare, infondere fiducia, trasmettere forza, speranza, amore, esprimere finanche bellezza.

Più nel dettaglio, le parole hanno l’effetto di indurre delle reazioni chimiche a livello corporeo che influiscono sul nostro successivo modo di comportarci.

Viene utile domandarsi: “Questo principio vale per tutte le parole o solo per alcune?”

A livello comunicativo ci sono parole più intense di altre, che, se usate opportunamente, possono risvegliare particolari emozioni a seconda della categoria alla quale appartengono.

Ci sono infatti parole armoniose e amabili, come meraviglioso, splendente, sublime, che inserite in una narrazione o in una descrizione rendono un discorso seducente, evocano bellezza e suscitano stati d’animo piacevoli che coinvolgono e affascinano l’interlocutore.

Altre, invece, sono capaci di produrre una scossa, un sussulto, ottenendo un effetto destabilizzante e provocando reazioni di distacco e allontanamento. Possiamo definirle come “parole sentinella” perché risvegliano l’amigdala, ci mettono in allerta e riecheggiano nella mente attirando a sé tutta l’attenzione, rivelandosi dominanti nel processo di ascolto ed elaborazione dell’informazione ricevuta, con l’effetto involontario di disorientare l’interlocutore e distoglierlo dal contenuto del messaggio che si intendeva trasmettere.

Alcune sono delle vere e proprie parole tabù, parole “proibite”, perché spesso giudicate volgari o offensive, e capaci di provocare un turbamento o addirittura uno shock emotivo.

Tipiche sono le parolacce, le imprecazioni, ma anche le parole che fino a qualche anno fa appartenevano al linguaggio comune: chi non ricorda i famosi watussi, gli altissimi negri? Sentire quella parola, oggi, risuona in maniera molto diversa rispetto a quando veniva intonata e ballata allegramente in molte feste fino agli anni ‘90.

E molte sono le parole che, con diverse intensità, possono risuonare dentro di noi in maniera rumorosa e generare un effetto sentinella. Aggettivi come brutto, osceno, tremendo, o parole come paura, problema, terrore, orrore, sono esempi di termini che evocano immediatamente situazioni e immagini forti, con l’effetto di alzare i livelli di cortisolo nell’organismo e provocare stress emotivo.

Una parola interessante che rientra in questa categoria è “errore”; un termine che non evoca certamente qualcosa di piacevole.

“Errore” è una di quelle parole che, anche per un aspetto fonetico, con un suono simile a orrore e terrore, scuotono l’animo e generano nel profondo un turbinio di reazioni e sensazioni di fastidio e insofferenza.

A livello percettivo sentirsi dire “hai commesso un errore” o “hai fatto un errore” ha decisamente un impatto diverso rispetto a espressioni come “hai commesso un’imprecisione”, “hai valutato in maniera non adeguata”, oppure “hai preso una decisione affrettata”, a seconda del contesto al quale la parola “errore” è riferita.

Nonostante si tratti di affermazioni che esprimono tutte un giudizio, dicendo a qualcuno “hai commesso un errore” si rischia di ottenere una reazione di maggior chiusura e una conseguente interazione con una persona che, molto probabilmente, non avrà uno stato emotivo aperto al dialogo e al confronto, ma che, al contrario, sentitasi criticata o accusata, adotterà un atteggiamento di difesa e cercherà solo di giustificare la propria posizione; questo perché nel linguaggio comune la parola “errore” è usata come sinonimo di “sbaglio”, anzi spesso si parla di errore per riferirsi a uno sbaglio che ha avuto conseguenze importanti: “errore” come “sbaglio grave”, e questa interpretazione, insieme all’aspetto fonetico di cui sopra, contribuisce a conferire al termine un’accezione prevalentemente negativa e a rafforzarne l’effetto percepito.

Ma quando si considerano le parole è spesso interessante partire dal loro significato etimologico.

Sbaglio deriva da sbagliare, la cui origine è riconducibile alla parola “abbagliare”, “prendere un abbaglio”, ovvero vedere una cosa per un’altra, una svista, una distrazione che ha portato a un momento di disorientamento, di confusione, a una valutazione superficiale e quindi incompleta.

Errore deriva invece da errare, ossia “vagare”, muoversi in una direzione non ben definita, uscire da uno schema precostituito, prendere una via che probabilmente non porterà alla meta attesa o alla destinazione desiderata.

Potremmo dire che è lo sbaglio, ovvero l’abbaglio, che porta fuori strada, che porta all’errore e alla conseguente esperienza.

Per citare un famoso esempio, Colombo ha errato per i mari, abbagliato dalla convinzione che avrebbe raggiunto l’India, e solo così ha potuto scoprire una terra che altrimenti sarebbe rimasta sconosciuta agli europei per chissà quanti altri anni.

Errare è quindi a tutti gli effetti un’esperienza e, come tale, ha una valenza primaria nella vita e nella formazione di una persona: è prendere una strada alternativa, che magari non ci porta al risultato aspettato, ma che mette in luce elementi che prima non ci erano noti o ci sfuggivano.

Ecco, quindi, che dentro la parola “errore”, in realtà, non si cela alcuna valenza negativa, bensì una reale opportunità, e diventa importante imparare a fermarsi, guardarsi indietro e, con approccio costruttivo, saper osservare e cogliere gli elementi che questo percorso ha fatto emergere.

Perciò quando pensiamo di aver “fatto degli errori” o ci attribuiamo degli “errori” (siano questi scelte di vita oppure di ragionamento) che riteniamo ci abbiano portato a conclusioni infelici, impariamo dapprima a distinguere l’elemento che ci ha abbagliato e indotto all’errore (una distrazione, una presunzione, un eccesso di fiducia o, ancora, un pregiudizio o una decisione affrettata) e poi a evidenziare in che modo questa esperienza ci ha arricchito.

“Errare è umano”, si dice, e la saggezza popolare ha portato a coniare l’espressione “sbagliando si impara”, ma non è, appunto, l’azione in sé dello sbaglio a insegnarci qualcosa, ma l’analisi di ciò che ha ci ha abbagliato e del percorso che questo ha originato a fornirci elementi di crescita.

Usiamo quindi la parola “errore” con consapevolezza, tenendo a mente l’effetto sentinella che può generare, in noi e negli altri, ricordandoci sempre che se sbagliare può portare a migliorare e migliorarci, errare è un viaggio che può portare a nuova conoscenza, a scoprire e a scoprirci.

Di Alberto Marchesan

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