Cosa è la Filosofia?

Mensa Italia
3 min readApr 1, 2020

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Provo a tratteggiare timidamente una nuova riflessione, che assumerà ben presto i contorni di un “gut-speaking” nudo e crudo, avente come oggetto una (prima?) lapidaria definizione di filosofia. Cosa (pare sia o cosa) è la filosofia?

Filosofia è ciò che è intimamente umano. Mi astengo dal rimarcare la pretestuosità del pensiero appena espresso; doppiamente tale, in virtù di una ben poco ponderata scelta dei termini e di una non certa aderenza al mio personale fardello di opinioni. Vediamo però perché non ritengo lo si debba scartare a priori.

Punto primo: “filosofia è ciò che”, ossia “come qualificare non sbilanciandosi”; d’altronde un’attribuzione meno anonima avrebbe totalmente annichilito l’illusione di non incappare in una qualche assunzione indebita, tipica di chi si addentra baldanzosamente in un’analisi. E quale modo più efficace del non muoversi affatto?

Punto secondo: “filosofia è ciò che è”; non ravviso particolari criticità per questo segnaposto itinerante, dato che la copula precorre tesi di più ampio respiro. Tuttavia, non nego si possano sollevare obiezioni di vario genere in proposito.

Punto terzo: “filosofia è ciò che è intimamente”. Quasi nessun altro avverbio potrebbe faziosamente nascondere, nella sua generalità, una più vasta gamma di significati e sottotesti; tuttavia qui si sta già cercando di prendere posizione nella pandoxìa di cui l’uomo è schiavo e artefice: si sta già suggerendo, ovvero, che la dimensione che concerne il filosofo è la profondità; e per precisare meglio: che si voglia demolire o costruire un sistema di verità o di domande, non v’è proiezione di un simile piano che non adoperi una prospettiva.

Punto quarto: “filosofia è ciò che è intimamente umano”. L’ultimo tassello si aggancia direttamente al precedente: “prospettiva” è l’eco che richiama alla mente il secondo topic del nostro discorso, il pregiudizio. Essere pregiudizievole, al di là della volgare connotazione mondana, significa esperire la realtà mediante protesi mediali inamovibili dal loro statuto ontogenetico. Se il filtro dell’umano, pur nella sua culturale polivalenza, inibisce un’alienazione del soggetto integrato nell’agire sociale, contribuisce, in maniera complementare, alla sua fissazione in una successione di stati mentali figli dei loro relativi presupposti di esistenza: non può generarsi idea o sensazione che prescinda da vincoli innervati a monte della rappresentazione.

Questo passaggio, che potrà risultare oscuro ai più, va senz’altro chiarito: una persona, grazie a strumenti di comunicazione contrassegnati da un codice condiviso (quello che si basa sui modi propriamente umani di comprendere e operare) nasce con una limpida tendenza a far parte di un mondo mediale. Senza il core code antropologico, che dalla fisiologica simmetria bilaterale con cui si inserisce il nostro corpo nello spazio si espande poi ai giochi linguistici e all’intero sistema coerente di credenze, non saprebbe che farsene dell’umanità e come una particella impazzita finirebbe per evadere dall’”ecosistema di collocamento”. Il non-uomo costruito ad arte con la malizia dell’immaginazione apparirebbe “impiantato”, innestato artificiosamente in un ambiente che prevede gli si affibbi la definizione di “uomo”, come in un paese all’incontrario in cui si chiami una cosa per l’altra, che magari nemmeno esiste con un altro nome. Ci si appellerebbe quindi alla società non come collettività spontanea, bensì come intersezione casuale di relazioni significative, appartenenti a un grande calderone di interazioni sparse. L’esperienza vissuta in un tessuto causale sventa la possibilità dello scenario descritto; la libera visione non compromessa è la merce da barattare, il non-ottenuto attraverso cui riscoprirsi umani.

Divenire filosofo, pensarsi tale, implica dunque il restringersi (intimamente, per l’appunto, con dovizia dialettica) in uno spazio d’essere prefigurato e concesso dalle sole condizioni di umanità. Cos’altro sia la filosofia è incuneato nel dettaglio.

Di Gabriel Garofalo

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