Cosa rimane di noi

L’inutilità di cercare un senso alla propria vita davanti a uno specchio.

Mensa Italia
5 min readJul 12, 2021

Se conoscete qualcuno che, senza scoppiare a ridere o senza essere uno sciroccato, vi possa guardare negli occhi e dire “ma certo, so benissimo qual è il senso della vita”, ecco, magari presentatemelo. Il senso della vita è una delle mie più grandi curiosità, più o meno sullo stesso livello della vita su altri pianeti (scommetto di sì), di sapere se chi ha messo per primo l’ananas sulla pizza fosse ubriaco (scommetto di sì, ma confesso che di tanto in tanto la mangio anch’io in quel modo) e se quella volta che la commessa roscia di Sephora mi ha sorriso guardandomi negli occhi ci stesse provando (scommetto di no, ma la curiosità rimane, era proprio carina!).

Proprio perché il senso della vita è una delle mie più grandi curiosità (sì, lo so, non sono certo l’unico) ho passato una certa quantità di tempo a scervellarmi al riguardo. Non so voi, ma a me risulta difficile fare le cose senza sapere perché le sto facendo. Valeva a scuola con le versioni di latino, vale quando vado all’Agenzia delle Entrate e mi chiedono la stessa firma tre volte in tre sportelli diversi per una pratica di due minuti e vale tanto di più per l’unica cosa che facciamo ogni singolo momento della nostra esistenza: vivere. Nella mia testa, l’equazione è sempre stata molto semplice: vivo, dunque servo a qualcosa. Ma a cosa? Senza andare a scomodare ampi settori filosofici o teologici, è difficile pensare che siamo tutti qui per un incredibile caso fortuito di combinazioni di amminoacidi, specialmente in considerazione della complessità che sta alla base della biologia di un qualunque essere vivente, compreso, anzi in misura maggiore di tutti gli altri, quel meravigliosamente dannoso parassita chiamato essere umano.

Eppure, per quanto ci si possa pensare, la risposta non è immediata. E non è neanche detto che la tua risposta sia la mia risposta o che la mia risposta sia la risposta del tabaccaio sotto casa e così via. Tuttavia sono qua e voglio provare a dire la mia.

Un giorno di qualche anno fa, in un periodo particolarmente grigio della mia vita — non brutto, badate bene, ma grigio: uno di quei periodi in cui giorno dopo giorno dopo giorno fai le stesse acose, vedi la stessa gente, ti svegli e vai a dormire con lo stesso entusiasmo e sembra che non ci sia alcuno stimolo all’orizzonte — sentii uno strano solletico vitale poco prima di pausa pranzo. Che diavolo era successo per farmi sentire di nuovo vivo?

Ripercorsi velocemente il film della mattinata (cornetto al pistacchio… no, avanti veloce; la signora Maria che mi chiama per dirmi che ha un’infiltrazione dal soffitto… no, avanti veloce; controllare la data di uscita di Avengers: Infinity War… no, avanti veloce; nient… aspetta! Fermo immagine!) e raggiunto il momento giusto, capii cos’era successo.

Mi aveva chiamato a metà mattinata un amico, ringraziandomi per averlo aiutato a passare un esame la settimana prima. Erano mesi che provava a passarlo, l’ultimo esame prima di laurearsi, ma non c’era verso. Essendo un esame di statistica ed essendo io davanti al computer molto spesso per lavoro ed essendo lui molto bravo a mandare foto dell’esame senza farsi sgamare, ero riuscito a dargli una mano tra la mia conoscenza e il mio sapiente uso di Google. Pochi minuti prima della telefonata gli era arrivato il risultato: 23. Laurea in arrivo!

Dovessi dare una definizione di altruismo direi che è un equilibrio di Nash di singoli virtuosi egoismi: ci si rende utili agli altri perché la cosa ci fa stare bene. Ecco, in quel momento mi sono chiesto… E se fosse questo il senso della vita? Lasciare un’impronta nell’esistenza degli altri?

Il concetto non è nuovo: già Ugo Foscolo nel 1807, nel famoso carme Dei sepolcri, si dilungava sull’effetto del ricordo dei morti sui vivi. Insomma, non sto inventando nulla di nuovo e, d’altra parte, non ne ho neppure mai avuto la pretesa.

Provate però a riflettere con me: cosa è più tangibile del segno che lasciamo nella vita degli altri? In un certo senso è come se le nostre azioni prendessero sostanza solo nel momento in cui hanno un reale effetto su qualcuno.

Ammettendo che questa teoria abbia un senso, essa si traduce in due conseguenze:

• tutti possiamo trovare un senso nella nostra vita (a volte basta una tagliatella ben fatta per lasciare un ricordo);

• nessuno può avere un senso stando completamente da solo (a meno di non essere un artista o un inventore o uno scienziato, le cui scoperte/produzioni possono arrivare anche a persone lontane e sconosciute).

Come piccole tessere di un domino che andrebbe guardato dall’alto (e questo tuttavia probabilmente non riusciremo a farlo mai), non sappiamo quale sia il senso complessivo, ma potremmo sapere che se tiriamo giù la prossima tessera sulla spinta di quella precedente diamo un motivo chiaro alla nostra esistenza.

Per cercare il senso della vita, dunque, potrebbe bastare smettere di guardare il proprio ombelico e aprirsi al mondo esterno, consapevoli di avere tutti qualcosa da dare e che magari questo qualcosa, una volta elaborato e dato a una nuova persona, sarà proprio ciò che darà un senso alla vita del nostro prossimo.

E magari proprio Jeff Buckley e Leonard Cohen ci direbbero che il senso della vita non esiste, ma è tutto un freddo e spezzato Hallelujah, e, mentre ce lo dicono, ci lasciano tutto il senso della loro vita.

Di Simone Ferrari

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