Contagio emotivo

Come le emozioni negative condizionano il branco.

Mensa Italia
6 min readMar 24, 2021

Il 6 gennaio 2021 un gruppo di sostenitori di Donald Trump fa irruzione al Congresso. Durante l’assalto muoiono 4 persone. Successivamente gli account social di Trump su Facebook e Twitter vengono sospesi.

Più o meno nello stesso periodo, a Milano, a Roma e in altre città d’Italia, un nutrito gruppo di studenti protesta contro la didattica a distanza, organizzando sit-in fuori dalle scuole, chiuse per l’emergenza Coronavirus. Alcuni licei vengono occupati.

Il 15 gennaio 2021, sempre in Italia, prende il via l’iniziativa IoApro1501: un gruppo di ristoratori, stanchi delle chiusure imposte dagli ultimi DPCM, si organizza per riaprire bar, ristoranti e pub, senza temere multe e sanzioni.

Lo stesso giorno, a Tunisi, hanno luogo violente proteste contro le restrizioni per la pandemia a opera di un gruppo di giovani, soprattutto adolescenti. Il governo è costretto a far scendere in campo l’esercito per porre fine ai saccheggi.

Che cosa hanno in comune questi quattro episodi di cronaca?

Il protagonista è sempre il gruppo che, in modo più o meno plateale o pacifico, decide di portare avanti un’istanza in cui crede.

In questi episodi il gruppo, spinto da emozioni di rabbia, frustrazione o paura, arriva a compiere azioni discutibili, anche immorali o illegali, arrivando a causare addirittura delle morti.

Nel gergo della carta stampata si usa spesso il termine “branco”, come se si trattasse di un’entità a sé, non di un gruppo formato da individui, in grado di ragionare e agire responsabilmente per conto proprio.

In psicologia si parla di deindividualizzazione o deindividuazione. Si tratta di un concetto introdotto per la prima volta a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, dall’antropologo e psicologo francese Gustave Le Bon e sviluppato in seguito anche da Philip George Zimbardo, psicologo statunitense noto per l’esperimento carcerario di Stanford.

Per tale esperimento, furono selezionati 24 studenti universitari di età compresa tra i 20 e i 30 anni, a ciascuno dei quali venne assegnato in maniera arbitraria il ruolo di detenuto o di guardia carceraria.

Zimbardo ebbe modo di verificare che i comportamenti violenti tipici degli ambienti carcerari dipendono in larga misura dal contesto e dalle circostanze del momento.

Durante l’esperimento, infatti, i partecipanti arrivarono a immedesimarsi in maniera eccessiva nei rispettivi ruoli, passando dal sadismo delle guardie carcerarie ai sintomi di depressione dei detenuti.

Nel 2010, il film The experiment, ispirato all’esperimento di Stanford e remake di un altro film del 2001, racconta fino a che punto possono spingersi individui che tendono a identificarsi eccessivamente con il ruolo assunto e con il gruppo a cui appartengono, in un’eterna e spietata lotta tra Noi e Loro.

La disciplina, l’identificazione con il gruppo, l’astio verso gli “altri” e verso tutte le opposizioni sono ben evidenti anche in un altro esperimento, condotto in Germania nel 1967 dal professore di Storia Ron Jones con gli studenti del secondo anno della Cubberley High School di Palo Alto in California. L’esperimento, denominato “La terza onda”, è stato poi narrato dallo scrittore statunitense Todd Strasser nell’omonimo romanzo, e ripreso nel film tedesco L’onda del 2008.

Le emozioni negative di rabbia, aggressività, disgusto o frustrazione rischiano di amplificarsi in modo incontrollato all’interno del gruppo. Ciò è ancora più evidente se all’interno del gruppo sussiste l’anonimato, con conseguente scomparsa, o forte diluizione, del senso di responsabilità individuale. In queste circostanze, come spiega Valeria Adami, psicologa e specialista in Neuropsicologia e Psicopatologia forense, i singoli individui agiscono in virtù delle regole deliberatamente create e condivise all’interno del gruppo, tralasciando temporaneamente i valori e le convinzioni morali personali.

Qui la responsabilità non è più individuale, bensì dell’intero gruppo, e ciò tende a far venir meno il senso di colpa e la paura che, in altre circostanze, potrebbero impedire di agire in modo avventato e impulsivo.

Episodi di inaudita violenza contro cose e persone, dunque, possono essere causati dal contagio emotivo, eventualmente alimentato dal consumo di alcool e droghe.

Al tempo stesso, la dinamica del gruppo può generare comportamenti virtuosi quando le emozioni alla base sono positive. Il senso di appartenenza al gruppo, in questo caso, viene innescato ad esempio per attività di aiuto e di solidarietà.

Il contagio emotivo può svilupparsi anche attraverso i social network. Il caso Cambridge Analytica, la società di consulenza britannica che avrebbe manipolato gli elettori durante le presidenziali USA del 2016 e in occasione del referendum sulla Brexit, ha dimostrato come sia possibile influenzare il pensiero degli utenti tramite i canali social.

Secondo uno studio del 2013 pubblicato da Adam Kramer, Jamie Guillory e Jeffrey Hancock, tre ricercatori rispettivamente dell’Università di Manchester, di Dublino e di Stanford, post e contenuti positivi mostrati all’interno del feed del social network riescono a influenzare positivamente gli utenti.

Vi sorprenderà forse maggiormente leggere i risultati di un altro esperimento, condotto dai ricercatori Lorenzo Coviello, Yunkyu Sohn, Adam Kramer, Cameron Marlow, Massimo Franceschetti, Nicholas Christakis e James H. Fowler. L’obiettivo, qui, è stato analizzare gli effetti della pioggia sull’umore degli utenti. I contenuti condivisi sui social dai partecipanti al test hanno influenzato negativamente anche gli utenti più distanti da loro, che vivevano in città dove le condizioni atmosferiche erano, in quel momento, più favorevoli.

Tuttavia, le emozioni non sono tutte uguali. Rui Fan, Jichang Zhao, Yan Chen e Ke Xu, ricercatori presso l’Università di Pechino, hanno scoperto, analizzando oltre 70 milioni di messaggi scambiati sulla piattaforma social cinese Weibo, che tra le emozioni principali la rabbia si propaga più velocemente, mentre la gioia, e soprattutto la tristezza e il disgusto, vengono maggiormente condivisi con una cerchia più ristretta di persone.

Studiare e analizzare approfonditamente la psicologia e le emozioni tipiche delle dinamiche di gruppo, ben presenti anche nel mondo virtuale, aiuta a comprendere come e perché si possano generare episodi come quelli già descritti.

Non si può fare a meno di pensare all’episodio Odio universale di Black Mirror, in cui un killer inizia a uccidere, per mezzo di api robot, una serie di uomini e donne, scelti come vittime sacrificali dagli utenti di un popolare social network.

Per l’appunto l’odio universale degli utenti si manifesta attraverso l’hashtag #DeathTo: non ci si limita all’umiliazione pubblica — come, del resto, accade oggi in qualsiasi piattaforma social — ma si arriva a uccidere.

Anche nel mondo prima del web, le dinamiche di gruppo potevano sfociare in atti di violenza; non si tratta quindi di un problema nato negli ultimi anni, tuttavia è senza dubbio un fenomeno diventato molto più comune con lo sviluppo dei social media.

Non esistono soluzioni semplici e immediate, ma senz’altro la politica dovrebbe contribuire ad arginare il fenomeno. Oggi le discussioni, i dibattiti e i confronti avvengono in una sorta di agorà moderna, alla mercé del pubblico e, come abbiamo visto, le emozioni generate possono comportare conseguenze ed effetti su intere nazioni, se non in tutto il mondo. Impossibile non tenerne conto.

Ciò implica che lo Stato o il Governo possano controllare e decidere quali notizie diffondere, che taglio dare loro e, in ultima istanza, quale dovrà essere l’emozione suscitata nel pubblico?

Certamente no, perché si correrebbe il rischio di utilizzare i social network a proprio vantaggio, come strumento di attacco nei confronti degli avversari politici. Che questo sia un pericolo concreto e reale è assodato, stando a quanto accade oggi, ad esempio, nei Paesi in cui vige una dittatura (e, purtroppo, non solo).

Se affidare solo ai politici un impegno così gravoso e delicato appare azzardato, chi potrebbe, quantomeno, aiutare la politica? I social media, innanzitutto, dovrebbero avere policy chiare a tutela della pluralità e della libertà di parola, ma al tempo stesso anche strumenti per evitare la manipolazione delle emozioni e dei sentimenti degli utenti.

Siamo certi che i più innovativi algoritmi di intelligenza artificiale possano svolgere perfettamente il compito, a patto che siano addestrati nel modo giusto. Il fattore umano, come si vede, è preponderante (ed è normale che lo sia), ma solo se si attiveranno organismi di controllo imparziali e obiettivi sarà possibile vincere questa battaglia.

Di Alessia Martalò

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