Come se fossimo liberi
Riflessioni sulle scelte che prendiamo, un istante dopo l’altro.
«La libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta».
(Theodor Adorno)
Una persona stesa sul lettino, un’altra seduta dietro a esso. Il paziente sta raccontando di sé: un sogno, un fatto di cui è stato testimone, una riflessione, una persona conosciuta. Parla per quasi un’ora come viene, come fa settimanalmente, da tempo. Lo psicoanalista dice poco, a volte fa una domanda. Allo scadere del tempo la persona esce e lo psicoanalista si prepara al prossimo paziente, ma prima prende qualche appunto, pensando che a breve quella persona compirà una certa azione. Non è sicuro di come si svolgerà, ma è convinto che farà qualcosa in una determinata direzione. Quando il paziente ritorna racconta esattamente quello che lui si aspettava di sentire.
Una persona, di cui un’altra è stata in grado di prevedere l’azione che avrebbe compiuto, è stata libera di decidere di compierla? Come mai, allora, qualcun altro poteva saperlo prima, se la persona riteneva di averla decisa in quel momento, senza premeditazione?
Cos’è questa volontà consapevole, questo cosiddetto ‘libero arbitrio’, per tanto tempo ritenuto il carattere distintivo dell’uomo dagli animali?
Una definizione per tutte: Wikipedia riporta che “il libero arbitrio è un concetto filosofico e teologico secondo il quale ogni persona ha la facoltà di scegliere gli scopi del proprio agire e pensare, tipicamente perseguiti tramite volontà, nel senso che la sua possibilità di scelta ha origine nella persona stessa e non in forze esterne”.
Il concetto principale in questa e in altre definizioni è che il libero arbitrio, la volontà consapevole, ha origine nella persona, non dipende da cause esterne ad essa. Il senso del termine libero è solo relativo: libero rispetto a ciò che è fuori di noi.
Tralasciamo il lungo dibattito tra il teologico e il filosofico che ha attraversato secoli di storia dell’uomo e partiamo da dove siamo ora: un mondo in cui è presente un corpo di leggi fondamentali che sembrano funzionare nello studio della nostra esperienza più diretta, dal livello infinitesimale, quantistico, fino a quello macroscopico della scala dell’universo. A questo insieme di leggi fondamentali, che regolano l’accadere con un fare apparentemente deterministico ma nel dettaglio dominato da probabilità d’osservazione più o meno incidenti (fisica quantistica), fanno da contraltare, nelle scienze della vita, studi che, partendo da un punto di vista più globale, ci aiutano a interpretare come, dal groviglio di interazioni subatomiche, atomiche e molecolari, possano poi, macroscopicamente, sorgere caratteristiche evidenti ai sensi, fino all’emergenza di un fenomeno così complesso qual è il processo mentale di un essere umano.
Oggi sappiamo, dalla neurobiologia, che l’armonia che risuona nel nostro cervello si alterna principalmente tra:
• Una rilassata jam session del cervello ‘a riposo’, nel cui vagabondaggio mentale si dipana la miriade di parole, immagini, sensazioni ed emozioni che quotidianamente si contendono i nostri spazi mnemonici, raccordandosi in risonanze più o meno originali, più o meno legate da grumi di senso, archiviandosi infine stabilmente come tali o anche riorganizzate in nuove correlazioni (opera del circuito neuronale di default, quello attivo anche nel nostro lavorio onirico o in abbandono a una fase immaginativa, principalmente connesso alle aree posteriori dell’encefalo);
• una sinfonia più organica, coordinata in un’esecuzione coerente che utilizza toni e note provenienti da diverse aree cerebrali, ma strettamente correlate, e cooperanti verso una direzione, uno scopo preciso, in genere quello cui porremo mano (anche fisicamente) entro breve lasso di tempo dall’esecuzione della sinfonia (il modo in cui opera abitualmente il circuito esecutivo, specie tramite la corteccia prefrontale, fulcro della coscienza di decisioni poi esternalizzate nel mondo circostante con parole o con azioni specifiche);
• l’orchestrazione di contenuti semantici provenienti da varie reti neurali, che produce una transitoria modulazione e generazione di nuove idee, favorita dalle relazioni neuronali ‘a lungo raggio’ (connettività dinamica di rete).
A loro si affiancano altre ragioni di modulazione della nostra armonia mentale, quali quelle che apportano un contributo di intensità, ovvero importanza, nei segnali trasmessi, rilevabili come emozioni.
In tutto questo panorama così movimentato, la stragrande maggioranza dei fenomeni di interazione neuronale avviene simultaneamente e parallelamente, consentendoci la maggior parte del tempo di operare per automatismi appresi che non richiedono concentrazione su ogni particolare delle azioni svolte. Sarebbe insostenibile! Anche i fenomeni che presiedono a una nostra percezione cosciente, un nostro ragionamento, sono schiere di onde che si accavallano e che, per la limitazione delle aree immanenti all’azione (la memoria di lavoro), devono essere poi ordinate e serializzate in un flusso coerente che, distinguendosi dal mare magnum delle associazioni cerebrali, attraversa il punto in cui alcune emergono al contatto con la percezione dell’esterno e ci pongono in relazione attiva con il mondo.
Quello stretto passaggio di flusso, come nel collo di una clessidra, che si realizza istante per istante, è quel fenomeno che chiamiamo coscienza. Lo stato di coscienza in cui realizziamo piena consapevolezza della serie ordinata, o meglio ordinatamente correlata, di elementi emersi e che un attimo dopo dipaniamo nuovamente, distribuendoli in un ventaglio di eventi neuronali paralleli (attivazione di muscoli, attenzione percettiva, secrezioni interne), questa volta mediati, anzi scaturiti dalla percezione cosciente, ma di nuovo in gran parte connessi ad automatismi appresi, altrimenti non dominabili.
Allora, quando ci poniamo di fronte al compito di una scelta, anche semplice, quale quella di fare un certo calcolo a mente oppure di spingere un pulsante piuttosto che un altro, quando in questo percorso mentale esercitiamo il nostro libero arbitrio? Sembrerebbe ovvio che debba essere nel momento in cui gli elementi sorgono alla nostra consapevolezza e decidiamo la direzione del flusso successivo. Stiamo però scegliendo solo in base agli elementi emersi di cui sopra, sulla cui formazione non abbiamo avuto dominio cosciente. E se ne fossero emersi altri, differenti, cosa avremmo deciso?
La consapevolezza è considerata il presupposto per esprimere la nostra volontà, per effettuare liberamente una scelta.
Sul finire del secolo scorso, i famosi esperimenti condotti dal neurofisiologo americano Benjamin Libet, ricercatore e docente presso il Center for Neuroscience dell’Università della California, atti a rivelare l’esistenza di attività cerebrali “preparatorie” poco prima che un soggetto si impegnasse in un’azione apparentemente spontanea, dimostrarono che in realtà il momento in cui effettuiamo una scelta, effettuiamo un atto volontario, si manifesta con un discreto ritardo — tra 0,33 e 1 secondi — rispetto a quando sembra formarsi nel cervello l’attività innescante l’atto. Libet interpretò questa attività come il decidere del cervello su cosa fare prima di essere consapevolmente impegnati nell’azione. Gli esperimenti suscitarono ampie discussioni sulla loro interpretazione, ma repliche successive li confermarono fino ai risultati ancora più eclatanti del neuroscienziato John-Dylan Haynes (inglese d’origine ma operante da tempo in Germania, dove detiene diverse cattedre), responsabile di un gruppo di ricerca presso l’Istituto Max Planck per la Cognizione Umana e le Neuroscienze di Lipsia, il quale riaffrontò il problema nel 2008 tramite nuove metodiche, sia dal punto di vista strumentale (risonanza magnetica funzionale) sia del protocollo sperimentale, confermando un ritardo fra la formulazione mentale e l’azione stessa (l’atto cosciente) di almeno 4 secondi. Il processo appare invertito: la libera scelta è in realtà solo il momento di consapevolezza di una decisione cui il nostro cervello ci ha già indirizzato per motivazioni legate alle proprie relazioni interne, come visto precedentemente, l’ultimo atto di testimonianza di una catena decisionale avviata ben prima.
È questo un libero arbitrio, esercitare una libertà consapevole? La chiave di analisi è innanzitutto nel senso dato all’uso della parola libertà, supposta assoluta, ma che così presupporrebbe l’indipendenza totale da ogni costrizione materiale e quindi anche dall’essenza stessa del nostro corpo. Non è così. Noi siamo natura e storia.
Siamo quello che il nostro organismo, anche per merito di altri fattori (genetica e ambiente), è venuto a essere nel tempo, siamo tutto quello che abbiamo esperito e che ha supportato la modellazione del nostro apparato mentale, siamo anche quello con cui ci consentiamo di continuare a vivere: l’aria che respiriamo, quello che mangiamo, che ci mettiamo addosso, il mondo su cui interveniamo. La complessità estrema della nostra costituzione a livello microscopico fa sì che ogni accadimento mentale sia il risultato di un coacervo di cause contingenti legate all’architettura neuronale, alla composizione intracellulare dei neuroni e alle loro connessioni, alla guaina mielinica, ai mediatori presenti e alla permeabilità cellulare, nonché alle concentrazioni ioniche e alla produzione enzimatica, al flusso sanguigno presente e via dicendo, un insieme su cui influisce la determinazione genetica dovuta al nostro patrimonio ereditario. E in tutto questo ha la sua parte, al livello più basso, anche l’indeterminazione probabilistica degli accadimenti subatomici, in base alla teoria quantistica. Tutto quello che ci costituisce è ciò da cui scaturiscono le varie possibilità di una scelta, piccola o grande che sia, e la decisione finale stessa, che una qualunque delle possibili variabili può rendere diversa: la glicemia bassa, un colpo di vento, una birra in più, lo sguardo di una persona, un ricordo estraneo che compare inaspettatamente alla ribalta. La maggior parte delle componenti di una nostra decisione, anche qualora ci sembri molto razionale, è per lo più biologicamente e psichicamente inconscia, come già insegnava Freud.
La libertà, o meglio lo spazio delle possibilità di scelta che abbiamo, ha allora a che fare solo con quello che siamo diventati e che il nostro essere complessivo è in grado di esprimere. Più è aperto, più è libero: quante più informazioni, esperienze, emozioni avremo incamerato, con uno schema che abbia una sua coerenza interna, tanto più avremo espanso la potenzialità che la nascita delle nostre decisioni, anche se anteriore alla nostra consapevolezza delle stesse, possa essere più intimamente nostra, legata a quel soggetto con caratteristiche uniche, nel complesso mosaico delle sue parti, che siamo.
Probabilmente la domanda esistenziale sul libero arbitrio, al di là di quanto detto e di ogni altro argomento, non è risolvibile se non ispirandosi a un approccio quale quello del filosofo tedesco dei primi anni del Novecento, Hans Vaihinger, espresso dalla locuzione comportarsi come se. Nel nostro caso, non essendo assegnabile una risposta assoluta alla realtà della libertà di scelta, dovremmo però assumere al contempo un doppio come se: la miglior scelta di vita diventa comportarci sempre come se ogni scelta fosse completamente volontaria e allo stesso tempo coscienti di dover ammettere che è come se fosse determinata completamente dall’insieme di circostanze.
Come dire: in quel momento abbiamo scelto liberamente quello che forse non potevamo far altro che scegliere.
Inutili i rimpianti, ma importante raccogliere ciò che si è appreso per la scelta futura, che, in condizioni analoghe, potrà così anche essere diversa, perché noi saremo diversi.
Di Arnaldo Carbone
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