Cane da guardia o cane da compagnia?
I motivi per cui oggi è ancora più difficile fare del buon giornalismo.
Nella nuova classifica mondiale sulla libertà di stampa il nostro Paese si colloca al 41° posto, recuperando così due posizioni rispetto allo scorso anno.
Meglio di noi fanno, tra i tanti, Ghana, Sud Africa, Burkina Faso e Botswana. L’associazione Reporters Sans Frontières precisa che “il livello di violenza e di minacce contro i giornalisti cresce soprattutto a Roma e nelle regioni del Sud. In Campania il direttore di Campanianotizie.com, Mario De Michele, ha rischiato di morire in un agguato di stampo camorristico a novembre 2019 a seguito di un’inchiesta giornalistica”.
Se è vero che, in Italia, i politici sono effettivamente meno aggressivi rispetto al passato (basti pensare all’editto bulgaro di Berlusconi), nell’ultimo anno si sono registrati numerosi attacchi alla stampa da parte di alcuni esponenti del Movimento 5 Stelle. E non solo.
Ma al di là del caso italiano, qual è la situazione nel resto del mondo secondo le ultime rilevazioni di Reporters Sans Frontières?
L’Europa è l’area geografica dove si riscontra, a livello generale, una maggiore libertà di stampa e una minore ingerenza da parte della politica.
A seguire l’America, poi l’Africa e l’Asia. La Corea del Nord, invece, scende dalla penultima all’ultima posizione, mentre la Cina viene attaccata per la gestione dei primi contagi da Coronavirus. Se in Cina ci fosse maggiore libertà di stampa — si legge — le notizie sulla malattia sarebbero trapelate e la pandemia (forse) sarebbe stata evitata.
Insomma, al giorno d’oggi non sembra proprio che il quarto potere sia realmente consapevole dei suoi mezzi e delle sue possibilità. Non ovunque almeno.
“Tre Stati nel Parlamento; ma laggiù nella galleria dei giornalisti, risiede un quarto Stato molto più importante rispetto a tutti gli altri”, per citare Edmund Burke, politico britannico del Settecento. Eppure, in molti Paesi, sembra che il giornalismo non sia a tutti gli effetti il cane da guardia della democrazia.
Sempre secondo Reporters Sans Frontières, più di un terzo della popolazione mondiale oggi vive in Paesi dove non vige la piena libertà di stampa. Prendiamo l’India per esempio. Nella Costituzione la parola stampa non viene mai citata. I cittadini hanno sì il diritto di parola ed espressione, ma questo diritto può essere revocato in particolari condizioni. Diverse leggi, negli ultimi anni, vanno in tal senso: il Prevention of Terrorism Act (PoTA) — del 2002, poi abolito 3 anni dopo — consentiva di arrestare chiunque fosse sospettato di essere in contatto con un gruppo terroristico o di poter rappresentare una minaccia per lo Stato.
Minaccia per lo Stato, in senso più ampio, sono evidentemente anche quei giornalisti che hanno l’obiettivo di fornire informazioni oggettive e fatti, non opinioni, ai propri lettori. E quello che sta succedendo nel corso di quest’anno va, purtroppo, in questa direzione.
Nel momento in cui scrivo, la pandemia è ancora in corso e non sappiamo come evolverà. Tuttavia, prendendo ad esempio il caso cinese, ma non solo, è indubbio che la libertà di stampa è messa a dura prova durante questo periodo di incertezza.
In Iraq, dopo che Reuters ha affermato che i casi di Coronavirus nel Paese sono stati fortemente sottostimati, le autorità hanno deciso di revocarne la licenza per tre mesi.
Nelle Filippine, due reporter — colpevoli di aver realizzato un reportage sul Coronavirus, evidentemente non gradito al Governo — rischiano due mesi di carcere. In Venezuela due giornalisti sono stati arrestati per aver parlato di alcuni casi positivi nella città di Caracas. In Iran il Governo ha vietato la pubblicazione di qualsiasi rivista cartacea.
Non si pensi, poi, che i casi di bavaglio alla stampa non interessino anche l’Europa. In Ungheria, Orbán ha assunto pieni poteri per gestire l’emergenza e poter punire i giornalisti che diffondono fake news sulla pandemia. In Romania, il Governo ha dato incarico alla National Authority for Administration and Regulation in Communications (ANCOM) di chiudere i siti di news che diffondessero notizie false. In Serbia, ai giornalisti è stato fatto divieto di attingere da fonti indipendenti sul tema pandemia, per attenersi esclusivamente alle notizie e ai comunicati stampa diramati internamente. La legge è stata poi ritirata a inizio aprile.
In Irlanda, sempre a inizio aprile, il Ministro dell’economia dichiarava che avrebbe risposto solo alle domande scritte dei giornalisti, mentre in Spagna il Governo comunica con la stampa tramite un gruppo WhatsApp, e si potrebbe andare ancora avanti con gli esempi.
Secondo un sondaggio condotto dalla IFJ (International Federation of Journalists) in 77 Paesi, oggi il 24% dei giornalisti ha difficoltà a reperire fonti indipendenti, il 3% dichiara di aver subito aggressioni e il 2% è stato denunciato per il proprio lavoro.
E in Italia? Il nostro Paese ha, a oggi, il più alto numero di giornalisti minacciati e sotto scorta dell’Unione Europea. Il Coronavirus qui evidentemente c’entra poco, ma fa comunque una certa impressione leggere determinate statistiche.
Secondo i dati di Mapping Media Freedom, tra il 2014 e il 2018, in Italia si sono registrate 83 aggressioni e 137 intimidazioni nei confronti di giornalisti. Tutti ricordiamo il caso dell’aggressione ai reporter de L’Espresso da parte di esponenti di Forza Nuova e le minacce ai giornalisti sul luogo della morte del capo ultrà della Lazio, Fabrizio Piscitelli.
In effetti, come si vede, gli attacchi politici — che pure ci sono e pesano moltissimo e addirittura, talvolta, scavalcano i confini italiani (‘Chi scava la fossa ci cade dentro’ è stata la minaccia rivolta a un reporter italiano dal portavoce del Ministro della difesa di Putin) — non sono l’unico problema: sono le aggressioni fisiche da parte di individui legati alla mafia e alla criminalità organizzata a destare molta più preoccupazione. Non è un caso, insomma, se nel nostro Paese vivono sotto scorta 20 giornalisti.
Di chi è la responsabilità? Di noi tutti. Sembrerà forse retorica, ma noi tutti, con i nostri comportamenti, possiamo provare a invertire questa tendenza.
Come disse Thomas Jefferson: «dove la stampa è libera e tutti sanno leggere, non ci sono pericoli».
Di Alessia Martalò
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