Accademia e salute mentale

Studenti, dottorandi, post-doc, ricercatori e accademici: esperti soprattutto in stress.

Mensa Italia
5 min readFeb 4, 2020

Da quanto emerge da alcuni studi, sembra proprio che stiamo trascurando la salute mentale di coloro che la mente la usano per lavoro.

No, non è solo un’impressione: le prime indagini e ricerche, per quanto in attesa di ulteriori approfondimenti, sembrano confermare che percorsi di studi e lavori in ambito accademico mettono a dura prova il benessere psicofisico di chi li sostiene.

Tra gli studenti più giovani (ultimi anni di scuola superiore, primi anni di università), così come tra specializzandi, dottorandi e via dicendo, si sta registrando un evidente incremento di problemi psicologici e psichiatrici; non parliamo solo dei più “comuni” disagi dovuti ad ansia e stress ma anche di vere e proprie patologie psichiatriche: depressione maggiore, insonnia, autolesionismo, pensieri suicidari, disturbi da stress post-traumatico e via dicendo.

Sembrano essere l’ambiente e il contesto accademici a produrre questi effetti, sebbene sulle cause siano ancora in corso svariati studi che si spera possano darci risposte più chiare e prospettare una soluzione.

L’ambiente accademico è ormai rinomato per la propria atmosfera fortemente competitiva, il “publish or perish”, i ritmi di studio e lavoro estremamente alti e l’onnipresente sensazione di precarietà riguardo al futuro, l’essere sottoposti a un giudizio costante, l’essere messi costantemente a contatto con i propri limiti, il dover costantemente migliorarsi per non rimanere indietro; quel che è certo è che coloro che in questo contesto devono viverci non sembrano passarsela bene tra enormi quantità di ansia e stress, peraltro subìte per periodi prolungati.

Che sia il ritmo infernale o che siano altre le cause alla base dell’allarmante quantità di disturbi psicologici e psichiatrici sviluppati dagli addetti ai lavori, in ogni caso forse non possiamo più permetterci di ignorare questo fenomeno e dovremmo cominciare a provvedere, oltre che a prestare estrema attenzione a questi dati, a prendere quantomeno i primi provvedimenti: stiamo dopotutto parlando della salute delle migliori menti che abbiamo, tra le quali si nascondono coloro che contribuiranno al progresso medico, tecnologico, scientifico, artistico etc. dell’umanità. Questi sono gli accademici che hanno il complicatissimo compito di trovare cure, soluzioni, innovazioni per rendere la nostra vita migliore e no, non possiamo permetterci, nessuno di noi, di fare finta di niente. Non parliamo del normale stato di ansia o del giusto di livello di stress che un lavoro, un percorso di studi o un esame possono apportare: parliamo, vale la pena ripeterlo, di depressione maggiore, pensieri suicidari, necessità di assumere farmaci per poter proseguire la propria vita. “Publish or perish” non può diventare un’espressione vissuta letteralmente.

Chi vi scrive, senza aver frequentato ambienti particolarmente duri o percorsi di istruzione particolarmente avanzata, ha avuto esperienza di due distinti episodi con conseguenze drammatiche: uno studente del proprio liceo e uno della propria facoltà; sarebbe imperdonabile se lasciassimo diventare prassi questi episodi per gli studenti che verranno.

C’è qualcosa che non va dentro le nostre scuole e accademie, spesso teatro di tragedie silenziose o conclamate, ed è il momento che se ne parli con coscienza; continuare a chiudere gli occhi e lasciare che le università si trasformino in una fabbrica di individui costretti a convivere con conseguenze psicologiche e psichiatriche è l’ultima delle mosse intelligenti: è necessario, data la posta in gioco, che si continui a prestare attenzione, raccogliere dati, ricercare riguardo questo fenomeno.

E quantomeno aumentare i servizi di assistenza: se il sistema accademico è in questo momento così duro da fronteggiare, apparentemente malsano e responsabile di tali danni, e se come probabile ci vuole del tempo perché esso cambi in meglio per coloro che ci vivono dentro, quantomeno potrebbe essere una buona idea aumentare i servizi di assistenza. Certo, non può esserci solo il counseling, che può aiutare durante le prime difficoltà di un percorso ma che deve essere certamente integrato da altri servizi per poter fronteggiare i problemi più debilitanti che una cattiva attenzione alla salute mentale produce. Il counseling è ormai attivo in praticamente tutte le principali università italiane: da Milano a Torino, da Napoli a Bari, passando ovviamente per Roma e le università delle isole; tuttavia è un servizio che non copre molte delle esigenze di una corretta salute mentale: si limita ad accompagnare l’individuo attraverso alcune difficoltà, sostenerne la proattività, analizzare o eventualmente correggere alcuni atteggiamenti, il tutto solitamente per un periodo limitato di tempo. A fronte di altre problematiche, non può far altro che indicare altri servizi o figure professionali che possano soddisfare tali ulteriori esigenze.

A questo proposito, poi, forse sarebbe anche il momento di fare continua e martellante informazione sul tema, soprattutto in Italia, combattendo lo stigma sulla questione della salute mentale: è il momento di dire chiaramente che la salute mentale ha pari dignità e “normalità” di quella fisica, demolire gli ultimi scampoli di tabù sull’argomento. In ambito accademico a maggior ragione dovrebbe ormai essere estirpata con ogni mezzo l’idea che rivolgersi a un professionista sia qualcosa da nascondere o di cui vergognarsi quando, all’opposto, scendere a patti con se stessi e ammettere di aver bisogno di aiuto è riconosciuto sempre più spesso come un atto degno di riconoscimento. Sì, è una cosa banale per molti, senza dubbio, ma purtroppo non lo è per tutti.

I dati già raccontano di percentuali spaventosamente alte e, nel grande circo accademico, i ricercatori non possono avere la parte delle bestie in gabbia, sacrificando la propria salute e la propria vita per la produttività e il profitto: già sono troppo spesso pagati con una manciata di noccioline, trascurarne la salute farebbe più danno a noi che a loro e, da quel che sembra, a loro fa già parecchio danno.

Alla fine dei conti, sembra proprio che abbiamo fatto nostra la vecchia massima (attribuita a Robert Frost): “Il cervello è un organo favoloso. Comincia a lavorare dal momento in cui ti svegli la mattina e non smette fino a quando entri in ufficio”.

di Giacomo Zonno.

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